Un piano (non proprio) perfetto

Di smalti, colori e bugie (Slash, Lemon, Fluff)

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    1. Smalti



    1_ Smalti



    Si guardò le dita della mano ed emise un piccolo sbuffo di soddisfazione.

    Richiuse la bottiglietta con attenzione, continuando ad ammirare il proprio capolavoro, alzando il palmo aperto e osservando il profilo delle dita sottili contro luce. Anche così i dieci diversi colori di smalto sulle unghie apparivano vividi, smaglianti e decisamente, decisamente, appariscenti.

    Smalti della migliore qualità, non quelle ciofeche da un dollaro che si sbeccavano dopo due ore. Aveva speso la paghetta di una settimana per prenderne dieci, ma non rimpiangeva un centesimo.

    Si guardava le unghie, ognuna delle quali pareva un piccolo pezzo di vetro colorato, lucido e liscio.

    Smaniava di entrare nell'armadio della sua camera e gongolare un po' nell'osservare la fluorescenza delle sue unghie -perché sì, gli smalti li aveva presi fluorescenti, le cose se andavano fatte andavano fatte bene-, ma voleva aspettare almeno altri quindici minuti ed essere assolutamente sicuro che fossero asciutte.

    La porta alle sue spalle si aprì bruscamente e Noah, seduto a gambe incrociate sul letto, sobbalzò, voltandosi allarmato verso l'uscio e sbuffando una volta identificato il soggetto fermo sulla soglia: “Oh, sei solo tu. Ma bussare mai, eh?”

    Abram alzò gli occhi al cielo, entrando nella stanza: “La camera è anche la mia, ti ricordo”

    Non appena l'odore acre degli smalti gli giunse alle narici storse il naso: “Buon dio, cos'è questa puzza?”

    Con un sorriso smagliante e decisamente orgoglioso Noah mostrò al fratello le unghie e l'altro, aggrottando la fronte, esaminò quel pot-pourri di colori sgargianti: “Mamma non ne sarà molto contenta”, concluse accartocciando le labbra.

    “Mamma non lo vedrà”, ripose prontamente, mostrando al fratello un paio di guanti a manopola con stampati sopra i musi di due panda.

    “E'... un set abbinato?”

    “Certo! C'è anche il cappello”, dunque gli mostrò il cappellino bianco provvisto di orecchie nere.

    “L'hai comprato in un negozio per ragazze?”

    Noah sbatté gli occhi un paio di volte, preso in contropiede, poi distolse lo sguardo: “Certo che no!”

    “Hai distolto lo sguardo!”

    Noah gli fece la lingua e Abram sospirò, ormai abituato alle stranezze del fratello, accasciandosi dunque sulla sedia davanti al computer a accendendo quest'ultimo, pronto a riprendere StarCraft da dove lo aveva interrotto la sera prima, mentre Noah si sedeva di fronte al cavalletto, pennelli alla mano, intenzionato a terminare l'ultimo progetto di pittura.



    I suoi primi dieci anni Noah li ricordava perennemente al fianco di Abram, che da bambini era il suo paladino.

    Abram era quattro anni più grande, con una passione sfrenata per i videogiochi, i telefilm della BBC e il suo fratellino, che difendeva a spada tratta e sin da subito prese la sua crescita come una propria responsabilità, sopperendo alla mancanza delle figure genitoriali; la madre dei due, infatti, era un'infermiera dell'ospedale cittadino, costretta ad orari di lavoro mostruosi, mentre il padre... bhe, non avevano idea di chi fosse loro padre, anche se sospettavano fosse lo stesso per entrambi considerata la loro spaventosa somiglianza, sia nei colori che nei tratti.

    Voci di corridoio -che nelle corsie di un ospedale si sprecavano, le infermiere facevano infatti strenua concorrenze alle vecchiette di geriatria- dicevano che loro padre era uno dei chirurghi, sposato, che sul lavoro, tra un'operazione e l'altra, si sfogava con l'amante, e da qui la loro nascita; nulla era però dato per certo, loro non si erano mai fatti particolari problemi e a chi lo domandava veniva risposto che loro un babbo non ce l'avevano, che alla loro mamma non serviva.

    Insomma, i due ragazzini si erano trovati a dover contare molto uno sull'altro, anche perché tendenzialmente detestavano la tata di turno che la madre affibbiava alle loro calcagna, in particolare Abram non trovava mai adatte le povere teenagers a badare al suo fratellino, sottolineando ogni loro errore o mancanza.



    Nonostante però la sua presenza incostante, la sua stanchezza cronica e l'umore variabile in una perenne sindrome premestruale i due non avevano mai imputato nulla alla madre... se non forse la scelta dei loro nomi, ma quella era un'altra storia -anche se, comunque, portarsi come macigni i nomi del primo e dell'ultimo dei patriarchi Biblici non era proprio facile.



    Presto i due avevano scoperto l'arte dell'arrangiarsi ma, malgrado il legame strettissimo che li univa avevano sviluppato personalità molto distinte e molto paricolari: mentre Abram a soli nove anni smontava e rimontava i joystick della playstation, Noah alla stessa età si dilettava a disegnare e cucire vestitini per le barbie trovate in soffitta tra le vecchie cose della madre -per la disperazione della donna che si ritrovò improvvisamente con lenzuola e sciarpe tagliuzzate, proprio quando stavano diminuendo gli elettrodomestici smontati e modificati.

    Anche la somiglianza fisica tra i due pian piano divenne più labile: mentre Abram con occhiali spessi e felpe di videogiochi era catalogato come Nerd smanettone, Noah con capelli lunghi rasati di lato e abiti di colore psichedelico veniva etichettato come artista avvezzo ai gay pride.

    La pubertà oltretutto aveva avuto effetti differenti sui due, donando ad Abram spalle da nuotatore e un'altezza sprecata per uno che passava la maggior parte del tempo seduto davanti ad un pc, mentre Noah aveva acquisito la sensualità e la grazia di un felino, mantenendo un'androginia e un aspetto fanciullino che si sposava perfettamente con la sua immagine, sperava dunque che il termine dello sviluppo non lo fregasse dandogli, che so... degli orrendi ed antiestetici peli sul petto, ad esempio. Meglio la morte, piuttosto.

    Le tendenze sessuali dei due furono una lampante conseguenza: Abram era assolutamente disinteressato alla cosa con un qualche picco di panico in presenza di una qualsiasi esponente del genere femminile, Noah ci dava allegramente dentro con ogni ragazzo carino che incrociava la sua strada.

    In tutto questo la madre era una presenza un po' labile, che cercava di mandare avanti una famiglia composta da due figli un po' dispendiosi -come ogni adolescente che si rispetti-, cercando di non tarpare loro le ali ma senza essere poi troppo entusiasta dalle strade che i suoi figli stavano intraprendendo.

    Insomma, questo poteva essere un po' il sunto della vita di Noah, una vita in fondo piuttosto serena, fatta di alti e bassi come quella di ogni ragazzo di sedici anni, quel periodo della vita in cui, ancora, i problemi del mondo ti toccano ben poco.



    Mamma era tornata a casa tardi, aveva notato che il figlio minore sfoggiava un paio di guanti a manopola che non gli permettevano nemmeno di cambiare canale in TV , ma non aveva avuto la forza di fare domande, ormai abituata alle stramberie del figlio: non aveva piantato casini quando se l'era ritrovato con i capelli azzurri annessi di mesh rosa, inutile farli ora per un paio di guanti... a forma di panda, come quelli che aveva intravisto da H&M . Nel reparto femminile, ovviamente.



    La donna era crollata nel letto un'ora dopo, così che i due ragazzi ebbero di nuovo casa libera, facendo nottata ognuno con i propri hobby.

    Abram aveva la sveglia alle sei -abitudine appresa anni prima per questioni di sopravvivenza dal momento che Noah, una volta entrato in bagno, non c'era verso di farlo uscire- e malgrado avesse dormito poco più di quattro ore era sveglio e lucido, mentre Noah, svegliato dal fratello alle sette, sembrava uno zombie, completamente rincoglionito dal sonno.

    “Noah, se fai tardi di nuovo mamma ti ammazza”.

    Il ragazzino mugugnò qualche cosa, assonnato.

    “... se fai tardi poi non puoi far notare le tue unghie a mezzo istituto”.

    E quelle furono le parole magiche che fecero alzare il ragazzino dal letto, il quale la prima cosa che fece fu controllare che le unghie fossero ancora a posto, sogghignando soddisfatto quando notò che sì, erano a posto e più belle che mai. Avrebbe fatto crepare d'invidia quella stronzetta della Moore, assolutamente.

    Mentre Abram usciva di casa per raggiungere la facoltà di tecnologia e informatica in tram, Noah si preparava meticolosamente davanti allo specchio, spazzolandosi i capelli e mettendosi la matita agli occhi, inseparabile amica da quando a tredici anni ne rubò una dal comodino di sua madre.

    Non è che si truccasse abitualmente, aveva anche lui i suoi -personali- limiti, ma quella riga nera attorno agli occhi era convinto che gli facesse uno sguardo estremamente sexy – almeno, da quando aveva imparato a darsela così da non sembrare un panda.

    Si ammirò allo specchio, senza vergognarsi minimamente dello sfacciato narcisismo che stava sfoggiando: malgrado tutto, Noah era venuto a patti con se stesso molto presto, apprezzandosi per quello che era, riconoscendo ogni suo difetto e ognuno dei suoi moltissimi pregi.

    Il campanello suonò e lui, afferrando tracolla e giacchetto, si catapultò fuori, smagliante e meraviglioso come non mai -ma lui era sempre meraviglioso.

    In fondo al vialetto, oltre al cancello, la lunga e secca figura di Timothy fece sorridere Noah che con slancio si catapultò verso di lui, abbracciandolo con la solita irruenza mentre l'altro, sobbalzando, gli diede qualche goffa pacca sulla sua spalla, visibilmente a disagio.

    “Andiamo?”, chiese Noah tutto sorridente e Timothy semplicemente annuì, incassando un po' la testa in mezzo alle spalle.



    Il rapporto tra Noah e Timothy era tra i più strani che si potessero vedere, ma sicuramente di vecchia data. Era il loro vicino di casa da tutta la vita e spesso i genitori di Timothy si erano resi disponibili quando la baby sitter dei due fratelli non era reperibile, erano quindi pressoché cresciuti assieme.

    Timothy era un tipo schivo, riflessivo, silenzioso, in una certa misura ombroso e, a detta di Noah, privo di un qualsiasi gusto estetico, come testimoniavano i suoi jeans troppo larghi e le sue felpe troppo anonime; era chiaro che non gradisse troppo le attenzioni altrui, anzi, preferiva decisamente passare inosservato, era infatti tattica la frangia di capelli costantemente davanti alla faccia a coprirgli buona parte della vista.

    Per concludere, era l'esatto opposto di Noah.

    Molti si chiedevano come potessero sopportarsi a vicenda, uno così ombroso e l'altro così eccessivamente sgargiante, eppure erano inseparabili. Nemmeno l'outing di Noah anni prima aveva rovinato il loro rapporto, infatti all'epoca Timothy si era semplicemente stretto nelle spalle, dando ad intendere che non gliene fregava poi molto.

    Superato quello scoglio che aveva spaventato per molto tempo Noah, il suo rapporto con Timothy era diventato ancora più stretto, tanto che il giovane non aveva remore a parlargli di ogni cosa gli passasse per la testa, come in quel momento.



    “Insomma, non è estremamente figo?”

    Timothy si strinse nelle spalle: “Non saprei, non faccio caso a certe cose”

    “Bhe, allora te lo dico io: è un figo da spavento. Un vero manzo. Quelle spalle... quelle braccia! Chissà come sarebbe farsi stringere da lui mentre-”

    “Noah!”

    Completamente rosso in viso Timothy riprese l'amico prima che questo potesse scendere nel dettaglio, scatenando un attacco di risa cristalline in Noah.

    Timothy affondò la testa tra le spalle, brontolando: quando aveva notato le unghie colorate di Noah si era aspettato che l'altro se ne pavoneggiasse, si era dunque preparato psicologicamente ad una buona mezzora di ciance su accostamenti di colore e cose simili, invece Noah non vi aveva fatto il minimo accenno, andando invece a sparlare di quel tipo.

    Timothy non capiva. Insomma, era così scontato. Un chilchè talmente banale che sarebbe stato ridicolo anche in un Harmony di serie B.

    La diva del liceo (anzi, divaH, con l'acca, come amava sottolineare Noah) che si innamora del quaterback palestrato dai capelli ovviamente ossigenati -perché sì, quel biondo non poteva essere naturale. Banale, estremamente banale, cosa ci trovasse Noah in quell'idiota a due ante proprio non capiva.

    Sospirò. A chi voleva darla a bere? Banale, certo, ma a figurarseli erano davvero perfetti e ciò gli procurava una discreta rabbia; a voler essere del tutto sinceri era incazzato nero, tanto che se avesse avuto il bellone biondo tra le mani lo avrebbe volentieri strangolato, se la differenza di mole non rendesse tale progetto improbabile.

    Sapeva bene a cosa era dovuta quella rabbia, non centrava nulla l'istinto di protezione che l'altro gli suscitava, come aveva invece cercato di mascherare la cosa: lui e Noah si conoscevano praticamente dalla culla, era sempre stato al suo fianco, l'aveva protetto, consolato, ascoltato per tutta la vita... e bhe, era innamorato perso, malgrado non avesse mai trovato il coraggio di dirglielo;

    ci mancava solo quello: lui, essere anonimo per antonomasia, che andava a dichiararsi a una stella splendente come Noah, senza contare che non è che fosse stato proprio facile scendere a patti con il fatto che, di punto in bianco, pensare al suo migliore amico glielo faceva venire duro.

    Sorvolando per un attimo sui problemi che l'essere gay si portava dietro -Noah era un caso a parte, era una star intoccabile lui, e se non funzionava il suo bel faccino funzionavano le spalle di due metri di Abram -, cosa non da poco quando hai sedici anni e “Sei gay” viene utilizzato alla stregua di “Sei un coglione”... ma proprio di Noah doveva andarsi ad innamorare? Quello che gli andava a raccontare tutte le scopate che faceva? Quello che aveva battuto ogni record di friendzoned quando, a sei anni, gli aveva detto che ce lo vedeva di più nella torre a fare la principessa assieme a lui, piuttosto che fare il principe e andare a salvarlo?

    I problemi aumentavano esponenzialmente dal momento che ogni volta che si faceva una sega pensando all'eccentrico amico si sentiva un criminale, al pari di uno che violenta la sorella.

    Insomma, aveva una cotta colossale per il suo migliore amico che ora gli stava tessendo le lodi di Tyler il quaterback ossigenato e scemo, la cui sola esistenza era un clichè.

    “Timothy, mi stai ascoltando?”

    “Cosa?”

    “Dicevo: devo finire il progetto per pittura. Mi servi te. Oggi pomeriggio passi a casa mia?”

    Timothy rimase qualche istante perplesso, ma poi semplicemente annuì: da tempo aveva smesso di fare domande a Noah, così come aveva smesso di correggere la sua grammatica.

    Con slancio Noah gli saltò al collo per limare i dieci centimetri d'altezza che li separavano e gli schioccò un bacio sulla guancia.

    “Sei un tesoro”

    Timothy arrossì e si disse che, qualsiasi cosa volesse fargli Noah nel pomeriggio, ne valeva la pena.


    2_ Servizi Segreti
    Spionaggio dalla finestra e piani di vecchia data



    Erano arrivati a scuola e si erano divisi dal momento che frequentavano classi differenti.

    Entrato in classe Timothy si sedette al banco che storicamente era suo: ultima fila, a sinistra, sotto la finestra, quel posto gli apparteneva tacitamente dal primo giorno di scuola del primo anno, era sua proprietà, nemmeno ci fosse stato il suo nome scritto sopra.

    Da quella bellissima posizione aveva la visuale completa sul cortile della scuola, compresi i campi sportivi, la sua attività principale era dunque osservare e monitorare il via vai di studenti: c'erano poche cose di cui Timothy poteva vantarsi -di certo non dell'aspetto o della sua capacità di intessere relazioni sociali- ma se c'era qualcosa in cui era imbattibile era quella di estraniarsi completamente da quello che accadeva durante le lezioni mantendo comunque una media del 7.

    Gli insegnanti avevano capito da tempo che traevano più profitto a lasciarlo stare quando vagava con lo sguardo fuori dalla finestra piuttosto che obbligarlo a seguire... finchè non disturbava e manteneva un buon rendimento scolastico poteva fare un po' come gli pareva.

    Quindi, mentre alla lavagna stavano spiegando aritmetica, Timothy stava fissando con la fronte aggrottata la squadra di football che si allenava.

    Non che li trovasse particolarmente interessanti, li considerava alla stregua di bufali imbazzarriti muniti di caschi e spallacci, ma tra tutti risaltava mister biondo ossigenato e Timothy non poteva evitarsi di maledirlo e sperare che gli arrivasse, in mezzo a quelle mischie, un bel calcio assestato agli attributi.

    Cosa ci trovava Noah di tanto particolare in quel tizio?

    Non poteva negare che fosse lo stereotipo di uomo che l'altro prediligeva, bastava guardare le sue passate storielle per notare che avesse un debole per i tizi grossi e virili, ma di solito erano, per l'appunto, storielle, delle vere e proprie meteore.

    Noah individuava la sua nuova preda, la seduceva, si divertiva per qualche settimana per poi mollarla -e, non si sapeva bene come, era in grado di restare sempre in buoni rapporti con ognuna delle sue vecchie fiamme; dono naturale, probabilmente.

    Timothy dunque aveva sì rinunciato a dichiararsi al suo migliore amico, ma aveva avuto sempre la certezza che sarebbe stato il numero uno nella vita di Noah: l'unico dal quale sarebbe sempre tornato, la sua costante, l'unico uomo davvero importante, Abram a parte. Invece con Tyler era tutta un'altra storia: Noah ci stava andando con cautela, cosa assai strana considerando la sua pazienza praticamente inesistente. Noah voleva qualche cosa? Noah se la prendeva. Punto. Invece con Tyler stava facendo tutto un giochino strano, lungo... lo stava praticamente corteggiando! Cosa che non aveva mai fatto e che stava mandando ai pazzi Timothy. Senza contare che tutta quella faccenda stava andando avanti dal ballo di fine anno della passata primavera, nel frattempo era passata tutta l'estate e buona parte dell'autunno, facendo macerare parecchio il povero Timothy.



    Quando si dice parlare del diavolo: in quel momento dall'entrata principale sbucò l'inconfondibile figura di Noah, che saltellante si andò a sedere sulle gradinate degli spalti.

    Ma non aveva lezione? Cos'è, ora marinava pure pur di guardare mister muscolo?

    Quando la squadra ebbe un attimo di pausa Tyler si levò il casco, passandosi una mano tra i capelli in un gesto che di casuale non aveva proprio un accidente, mandando in escandescenza Timothy che dal suo banco iniziò a contorcersi.

    Il biondo si avvicinò a Noah che nel frattempo si era alzato e Timothy avrebbe dato un polmone per capire cosa i due si stessero dicendo. Che diavolo aveva da ridere Noah? E perchè il biondo palestrato si stava prodigando a sorridere come un lecchino?

    Poi Noah fece un gesto piuttoto calcolato, portando entrambe le mani davanti al viso, i dorsi rivolti verso Tyler, mostrandogli chiaramente le sue unghie multycolor e l'altro, prendendogliele tra le proprie per osservarle meglio, sembrava incredibilmente interessato.

    Ma che diavolo! Ecco per chi si era dato lo smalto! Per quello!

    Ma sotto sotto, Timothy doveva ammettere che il vero nodo che gli dava fastidio era il fatto che a lui non aveva detto nulla. Non era più all'altezza di sorbirsi le sue pavoneggiate?

    Noah si era fatto bello per Tyler e a lui non riguardava?

    Timothy stava schiumando di rabbia e senza essersene reso conto si era messo in piedi, incollato alla finetra, almeno finchè l'insegnante non lo richiamò

    “Myers, è così interessante quello che accade fuori?”

    Rendendosi conto che tutta la classe lo stava guardando Timothy assunse un diffuso colore purpureo, risedendosi imediatamente e borbottando qualche scusa, la testa incassata tra le spalle.

    A lezione ripresa Timothy riportò lo sguardo fuori, e dovette fare forza su se stesso per non incominciare a imprecare quando notò che di Tyler e Noah in cortile non vi era più traccia.



    Noah aveva sempre pensato che le scale anti incendio fossero una cosa molto intelligente. Insomma, salvano la vita alle persone!

    Nella loro scuola, in particolare, salvano anche molto altre cose, come rapporti di coppia, amicizie...

    le scale anti incendio, poste all'esterno e nella zona posteriore dell'edificio, erano una sorta di punto di ritrovo per coloro che desideravano un po' di privacy, che fosse per pomiciare, fare a cazzotti o fumarsi uno spinello; gli stessi insegnanti sfruttavano la scala per fumarsi una sigaretta senza dover arrivare al parcheggio.

    Ed ecco che la famosa scala anti incendio era l'unica testimone dei due giovani, seduti sul pianerottolo tra il secondo e terzo piano.

    Noah aveva la testa abbandonata contro la spalla massiccia del biondo, il quale gli aveva passato un braccio attorno alle spalle.

    “Quindi non se ne è accorto per nulla?”

    Noah scosse la testa, l'espressione avvilita.

    Tyler alzò gli occhi al cielo: “Che imbecille!”

    “Ci ho messo tutto il pomeriggio, accidenti! E lui non ha detto una sola parola!”

    Tyler scosse la testa dando al più piccolo qualche gioviale pacca sulla spalla.

    “Se ti rincuora, penso che ti stiano molto bene quei colori. Anche se io non avrei scelto il giallo canarino”, disse con tono critico di chi sa il fatto suo.

    Noah sospirò, staccandosi dalla spalla dell'altro raddrizzandosi e giocherellando con uno dei buchi artistici dei pantaloni in microfibra.

    “Forse era meglio se mi innamoravo di te”, borbottò sommessamente, “Sei perfetto: hai buon gusto, sei figo, sei schietto e sei popolare”, sospirò per poi aggiungere, “E pieno di soldi”.

    Tyler scoppiò in una fragorosa risata, una risata che a Noah piaceva molto: era scoppiettante e rauca, una risata che trasmetteva allegria renstando profondamente virile.

    “Mi spiace, piccolo, ma mi piace prenderlo nel culo tanto quanto piace a te, non funzionerebbe”.

    Ebbene sì, per il furore e la disperazione della maggior parte delle cheerleader Tyler Jones era gay e orgogliosamente passivo.

    Il rapporto tra Noah e Tyler era iniziato in modo strano quando, qualche mese prima alla festa di fine anno Tyler venne scontatamente eletto re, mentre Noah, senza alcun precendente nella storia dell'istituto, venne scelto come reginetta, facendo crepare di invidia quella stronzetta della Moore.

    I due si ritrovarono loro malgrado a ballare insieme ma la scintilla scoccò quando entrambi, durante una piroetta, si girarono a fissare il culo granitico di Emmet, il fighissimo dell'ultimo anno.

    Quella semplice occhiata aveva rivelato che erano creature simili, e intellettualmente affini, da lì la loro amicizia era sbocciata dal giorno alla notte.

    Entrambi avevano finalmente trovato l'amico perfetto: qualcuno con i livelli di libido e disibinizione di un maschio che però sparla di cazzi; una combo non proprio facile da affrontare con chiunque: per le ragazze erano argomenti troppo volgari, per i ragazzi... non ne parliamo, certi argomenti sembravano degli attacchi personali alla loro virilità.

    Fu dunque scontato che Noah decise di confidarsi su un argomento delicato con Tyler: Timothy.

    Noah aveva una cotta spaventosa per Timothy da quando erano alti quanto il tavolo del soggiorno, aveva cercato di levarselo dalla testa, dandosi alla pazza gioia con chiunque fosse disponibile, cercando però solo uno stereotipo di uomo diametralmente opposto a Timothy nel terrore che questo potesse in qualch modo capire quale fosse il genere che Noah preferiva.

    Noah non aveva mai contemplato di dichiararsi a Timothy dal momento che era piuttosto convinto dell'eterosessualità dell'amico, malgrado questo non avesse all'effettivo una fidanzata dai tempi di Alice, con la quale il rapporto durò ben tre ore: tutto il tempo del riposino pomeridiano all'asilo.

    La svolta colossale che aveva dato a Noah la speranza e aveva messo in moto quel piano assurdamente folle era arrivata proprio al famoso ballo, quando Noah notò con che faccia Timothy lo aveva guardato ballare con Tyler; il dubbio era diventato ingombrante quando a metà serata l'amico era ubriaco fradicio a vomitare nei bagni, proprio lui che più di mezza birra non si concedeva mai.

    Quella era stata la pulce nell'orecchio, aveva poi iniziato a osserare sotto un'altra luce l'amico, notando certe occhiate, certe attenzioni. Durante l'estate, per avere la prova del nove, di ritorno da due giorni di vacanza al mare raccontò a Timothy di una scopata fantastica, la migliore della sua vita, con un bagnino che aveva dei pettorali da paura

    In quei due gioni di vacanza in realtà l'avvenimento più emozionante era stato lo spiaggiamento di una vecchia di circa 120 chili che dovettero servire 4 uomini ben piantati per rialzarla dall'asciugamano sul quale si era sdraiata, comunque il racconto spudoratamente inventato aveva avuto i suoi frutti dal momento che gli occhi rabbiosi di Timothy non era proprio lo sguardo di un amico che alscolta le tue avventure estive, piuttosto quello di un marito cornificato che ti ha colto in flagrante.

    Ecco che era dunque scattato il piano, con la beneplacida assistenza di Tyler. Il piano più vecchio del mondo, il clichè dei clichè, lo stereotipo più usato e bistrattato nella storia delle letteratura e del cinema: farlo ingelosire per fargli ammettere che ti ama. Probabilmente nemmeno la scena del ricongiungimento dell'ultimo istante in aereoporto è altrettanto utilizzata come espediente narravito.

    Tyler aveva avanzato l'ipotesi di essere schietto e dire a Timothy di essere innamorato di lui, ma su questo Noah era stato categorico: lui era una divah , non avrebbe fatto il primo passo!

    “Quindi il piano continua?”

    Alla domanda di Tyler Noah annuì, una nuova luce a illuminarlo; era così gasato, gli sembrava di essere una spia dei servizi segreti: avere un piano, dei sotterfugi, segreti... aveva proposto anche di darsi dei nomi in codice, ma Tyler aveva sbuffato mentre Abram si era categoricamente rifiutato, infatti in tutto quel delirio era riuscito a coinvolgere anche suo fratello che, malgrado sembrase insofferente, era in prima linea in quel folle piano e in fin dei conti sembrava divertirsi un sacco.

    “Lo costringerò a spogliarlo con la cosa del progetto di pittura, dovrà per forza scendere a patti con la sua libido. Essere mezzo svestito con me nella stessa stanza sicuramente lo farà impazzire”

    Un sorrisetto saputo e compiaciuto si dipinse sul volto del ragazzino, facendo ridere di gusto Tyler.

    “Moccioso, il tuo ego è smisurato”

    “Ma è per questo che ti piaccio”

    Tyler gli scompigliò i capelli continuando a ridere.

    “Timothy ha già preparato la camera. Gli ho detto di fare in modo che al momento clou io abbia tutto ciò che mi serve”

    Tyler aggrottò la fronte.

    “E glielo hai detto con queste parole?”

    Noah annuì.

    “E secondo te lui ha capito che tu volevi una scorta di preservativi?”

    “Certo! Ho anche specificato che devono essere ai mirtilli!”

    Tyler scosse la testa, sospirando, sicuro che Noah avrebbe trovato a casa non certo preservativi al gusto mirtillo -sempre che poi questi esistessero per davvero.

    “A proposito di tuo fratello...non è che oggi è libero?”

    Noah sospirò tragicamente, esasperato: “Abram è etero, quante volte te lo devo dire?”

    Tyler incronciò le braccia, adottando un cipiglio supponente: “Anche Timothy lo era ufficialmente fino a sei mesi fa, ora programmi di riempirti il comodino di preservativi alla ciliegia”

    Touchè.


    3_Galeotto il Van Gogh
    Mani fredde, teste calde




    Tyler ci aveva visto giusto, non appena Timothy e Noah entrarono in casa di quest'ultimo vennero investiti da un intenso profumo di torta ai mirtilli e individuarono le enormi spalle di Abram in cucina, indaffarato a spignattare con zucchero e farina e Noah pensò che solo suo fratello poteva sembrare virile indossando un grembiule a quadretti rosa mentre ballava sculettando sulle note di Madonna eccessivamente alte alla radio.

    Non appena Abram individuò i due ragazzi sulla soglia della cucina si immobilizzò, arrossendo all'improvviso non appena si rese conto della situazione in cui era stato beccato, abbassando immediatamente la radio e tossicchiando un saluto rivolto ai due appena arrivati.

    “Emh... noi saliamo!”

    Noah acchiappò una manica di Timothy il quale si lasciò trascinare al piano superiore, nella camera dei due fratelli, dove una volta dentro i due scaricarono cappotti, scarpe e cartelle dove capitava; mentre Noah rovistava in un profondo cassetto Timothy si guardava attorno in imbarazzo. Era stato in quella stanza milioni di volte, era stata teatro dei loro giochi da bambini e praticamente non era mai cambiata, semplicemente era mutata nel tempo in base alle necessità dei fratelli mentre questi crescevano, diventando specchio dell'identità di entrambi: già al primo sguardo si poteva capire chi dormisse in quale letto... chissà, forse per la collezione di entità galattiche di videogiochi per PS e X-Box da un lato, contrapposta a un set di creme di bellezza e smalti, con tanto di vestaglia rosa appesa a un angolo del letto, dall'altro.

    “Dunque... cos'è che devo fare io?”, chiese titubante Timothy giocando distrattamente con il bordo della felpa.

    Noah riemerse dal cassetto, con le braccia cariche di colori in pasticche e pennelli.

    “Spogliati!”, disse con voce imperiosa, sedendosi a terra a gambe incrociate e disponendo attorno a se quanto aveva fra le braccia e accendendo la stufetta elettrica poco lontana.

    Timothy quasi si strozzò da solo con la propria saliva: “Che?!”

    “Il tema del progetto è 'il corpo umano protagonista dell'arte'. Ho deciso di svilupparlo dipingendo direttamente sul corpo di qualcuno. Nel caso, tu”

    Se da una parte Timothy tirò un sospiro di sollievo nel sapere perché doveva spogliarsi, dall'altra il suo sguardo si adombrò: da come Noah aveva parlato sembrava che l'avesse chiesto a lui come ultima spiaggia.

    “E come mai hai chiesto a me? Tyler era occupato?”

    A Noah interiormente gli scappò un sorriso vittorioso, ma con fare innocente alzò lo sguardo dai colori, una credibilissima smorfia di stupore dipinta in faccia.

    “Cosa centra Tyler? Certo, forse avrei avuto più spazio su cui lavorare... ma vabbè. Dai, levati la maglia e siediti”

    Timothy storse la bocca in una smorfia insoddisfatta e con lentezza si levò la felpa, sedendosi a gambe incrociate dunque di fronte a Noah, circospetto.

    Quella situazione non gli piaceva, proprio per nulla, era da parecchio che evitava gli inviti in piscina o al mare, proprio per non trovarsi svestito con Noah presente. Provava una sorta di soggezione senza contare che era piuttosto sicuro che sarebbe potuto venirgli un infarto a vedere Noah in costume.

    Comunque non poteva nemmeno esporre il suo disagio, in quanto la prima volta che l'aveva fatto Noah si era messo a piangere convinto che Timothy fosse disgustato dal suo essere omosessuale e che quindi non volesse spogliarsi in sua presenza; ciò risaliva, più o meno, alla fine delle medie, un periodo delicato per Noah, durante il quale aveva visto molta gente voltargli le spalle per aver dichiarato che gli piacevano i maschi.

    Timothy ai tempi lo aveva rabbonito con una scusa ben lontana dalla verità, ma come dirgli che alla sola idea di vederlo senza maglia gli procurava una vistosa erezione?

    Decretò comunque che finché Noah non lo toccava direttamente e restava vestito poteva andare tutto bene, poteva farcela: nervi d'acciaio e sangue freddo, come un ninja.

    Timothy, tentando di immedesimarsi in un membro del villaggio della foglia, osservava Noah mentre questo mescolava quelli che sembravano i colori per dipingere la faccia dei bambini alle feste.

    Timothy fu stregato dai movimenti misurati e saputi di Noah, il quale di tanto in tanto intingeva il pennello in un bicchiere d'acqua e miscelava i colori su un piatto di ceramica. Giallo, viola, verde, blu, colori contrastanti che sembravano non centrare nulla si stavano allineando su quella tavolozza improvvisata in una logica che al momento solo Noah pareva afferrare.

    “Co-Cosa vuoi dipingere?”, sentendo la propria voce traballare con un certo sforzo tentò di farsi vedere più disteso e sicuro di sé.

    Noah parve non sentirlo, infatti ci mise qualche istante a rispondere, tanto era concentrato.

    “Il Cielo stellato di Van Gogh. Voglio rendere protagonista il corpo umano in un quadro dove la figura umana non c'è, ma diventa protagonista perché l'immagine stessa viene dipinta su un corpo, in effetti. Poi mi affascinava l'idea di un quadro dove, alla fine, anche il paesaggio non è il protagonista, in quanto lo è il colore. Quel quadro è il dominio del colore, dell'equilibrio cromatico.. . Sono solo macchie di colore. Magnifiche, macchie di colore”

    Mentre parlava Noah aveva lo sguardo distante ed era in momenti come quello che Timothy lo amava ancora di più, quando dava tregua un attimo al suo esseredivah, quei momenti in cui non gli importava di avere i capelli a posto, o che lo smalto non si sbeccasse, quei momenti in cui era solo l'istintività dei gesti a guidarlo e non pose costruite ad arte per mettere in scena il suo personaggio eccentrico, che in tanti amavano ma che altrettanti odiavano.

    Quando si parlava di arte Noah smetteva di essere una divah e si calava nei panni dell'artista, panni che sfoggiava con molta più disinvoltura, con più spontaneità, panni dove Timothy intravedeva il bambino curioso e un po' sfacciato che era stato, ora mascherato da quella posa da vamp che tanto sembrava amare.

    “Bene, dammi la schiena”

    Riscosso dai suoi pensieri Timothy obbedì, voltandosi, sobbalzando non appena sentì il tocco di Noah.

    “Oh, scusa. Ho le mani fredde?”

    Timothy boccheggiò, osando solo annuire. Stava usando le mani.

    Stava. Usando. Le. Mani.

    Noah stava usando le sue dannatissime -e bellissime- mani per dipingere sul suo corpo.

    Tocchi leggeri, come ali di libellula, con le punta delle dita percorreva la sua schiena lasciando dietro di sé tracce umide di colore in un ordine che per Timothy non aveva alcun senso, mentre Noah eseguiva spedito, concentrato.

    Salì dal centro della schiena, tra le scapole, percorrendo tutta la colonna vertebrale fino alla base del collo, lavorando per un periodo di tempo che a Timoty parve infinito, nel più perfetto silenzio disturbato solo dal ronzio basso della stufetta.

    I nervi del giovane erano messi a durissima prova: poteva dare la colpa agli ormoni, all'imbarazzo, all'età, alla frustrazione generale... fatto era che era vicinissimo a dare di matto, ringraziava solo un qualsiasi dio di passaggio che Noah stesse lavorando solo sulla sua schie-...

    “Voltati, che passo davanti”

    Timothy si azzannò le labbra, imponendosi calma e sangue freddo. Tranquillo e sereno, non stava accadendo nulla di strano. Noah gli stava solo dipingendo addosso. Prese una boccata d'aria come se stesse per buttarsi in una gara di apnea, poi con lentezza si voltò, sbiancando quando notò che Noah, non si sa bene quando, si era levato la felpa restando con quella maledetta canotta super aderente che si era comprato l'estate passata, quella che lasciava le clavicole completamente esposte.

    Noah intanto era uscito dalla trance artistica e stava studiando i comportamenti dell'altro, sornione.

    Il disegno di per sé lo aveva finito, ci aveva messo solo una quarantina di minuti ma era molto soddisfatto del risultato: quel tripudio di colori si armonizzavano su quel corpo asciutto, spigoloso, ogni vertebra, muscolo e nervo erano messi in evidenza dal movimento del disegno stesso, finendo però contemporaneamente in secondo piano adombrato dalla gloria del dipinto in sè.

    L'aver fatto voltare Timothy era stato un vezzo, desiderava portarlo al limite della sopportazione.

    “Accidenti, così è più scomodo, ci arrivo male”, disse con espressione concentrata e assolutamente convincente mentre, per avvicinarsi maggiormente a Timothy, passava le gambe sopra quelle incrociate dell'altro, accavallando le caviglie dietro alla sua schiena finendogli praticamene in braccio.

    Timothy sbiancò violentemente per poi assumere un favoloso color porpora che lusingò parecchio Noah, piuttosto soddisfatto della sua trovata.

    Fingendo ancora di dover dipingere intinse la punta delle dita nel colore blu per poi riprendere il dipinto dalla spalla destra di Timothy, scendendo verso il pettorale.

    Noah, nella sua soddisfazione, non aveva notato che Timothy nel frattempo aveva assunto un'espressione non proprio delle migliori, come se si stesse parecchio alterando, il ragazzino era infatti troppo preso dalla sua tattica offensiva per notare quanto l'altro effettivamente stesse poco gradendo tutta la manovra.

    Intanto Noah ragionava, cercando il punto dove definitivamente dare il colpo di grazia e far cadere l'altro ai suoi piedi.

    “Allora, hai visto oggi Tyler mentre si allenava? Diventa sempre più bello, non è vero?”

    Era con gli occhi fissi sul disegno sorrise quando sentì l'altro fremere sotto le sue dita, ma se lo avesse guardato in faccia probabilmente non sarebbe stato altrettanto contento.

    Timothy era arrivato al suo personale limite di sopportazione. Non ce la faceva più. Era stremato, consumato e in buona parte disperato.

    Noah non si accorgeva di lui, non lo capiva e non capiva i suoi sentimenti. Lo costringeva a quelle cose umilianti, sapendo bene quanto pudico fosse. Approfittava del fatto che non sapesse dirgli di no, ormai era lampante. Lo usava, ignorando deliberatamente quello che potesse provare, senza farsi problemi nell'invadere quel sottile e labile confine che tacitamente avevano sempre rispettato. Pretendeva di oltrepassare il limite senza aver riguardo nei suoi confronti e senza aspettarsi nessuna ritorsione, tanto era il suo sfigato migliore amico, no? Quello che non meritava le sue attenzioni, quello che ci sarebbe sempre stato malgrado tutto, giusto?

    Timothy invece cedeva le armi: basta. Non ce la faceva più. Faceva male, troppo male. Si era ripromesso di restare silenzioso, accanto all'altro finché Noah ne avesse avuto bisogno, ma ora, davvero, non ce la faceva più. Sentiva che se avesse continuato così sarebbero rimaste di lui nient'altro che macerie, perché l'amore che provava per Noah era ben più profondo di quello che lui stesso voleva ammettere, e vedere calpestati quei sentimenti giorno dopo giorno l'aveva logorato.

    “Tanto a te importa solo quello, no?”

    Un sibilo, cattivo, pieno di rabbia, un sussurro pieno di veleno.

    Noah alzò lo sguardo, sgomento: aveva avuto in mente mille scenari diversi, ma non quello. Non Timothy che, tremando, lo guardava con un sentimento spaventosamente vicino all'odio.

    “Ti basta che siano fighi e belli no?”

    Il cervello di Noah, andato momentaneamente in corto circuito, riprese a funzionare e lentamente ritrasse le gambe, portandosele al petto, allontanandosi, perché quello che aveva di fronte non era il suo migliore amico, non era il suo amore non corrisposto, era un animale ferito che stava attaccando.

    “Timothy, cosa stai dicendo?”, chiese con tono flebile, ancora con la vana speranza che l'altro stesse solo scherzando.

    Timothy aveva piantato le mani sulle cosce, stringendo i pugni talmente forte da far sbiancare le nocche, le unghie piantate nei palmi, la testa incassata nelle spalle, come un cane che all'ennesima bastonata si ritraeva ,ma ora con la cieca rabbia che lo portava ad aggredire.

    Una luce cattiva, quasi folle, gli attraversò lo sguardo: “Basta che rispettino i tuoi canoni estetici per farti scompare come una puttana, non è vero? Un qualsiasi sconosciuto andrebbe bene. Io no, però. Io non sono abbastanza per te. Tu sei magnifico, tu sei dio, vero?”

    Mentre parlava si sporgeva in avanti, sovrastando Noah che nel frattempo si ritraeva all'indietro, ammutolito e spaventato. Chi era quello di fronte a lui?

    “Sì, tu sei dio. Il mio dio. E tu l'hai sempre saputo, tenendomi legato a te, come un fedele cagnolino. Ma ora basta. Basta”

    Ormai sopra a Noah lo prese per le spalle, forte, facendogli male, facendolo mugolare piano in un verso strozzato.

    “Timothy, fermati. N-non è vero, non-”

    “TACI! STAI ZITTO! Non dire una maledettissima parola!”, mentre gridava, copiose e umilianti lacrime scorrevano sulle sue guance, infrangendosi su quelle di Noah che ormai era finito con la schiena per terra, sottomesso a Timothy.

    “Ti basta qualcuno che ti scopi, no? Bene, l'hai trovato!”

    Timothy, con gesti rudi, inesperti, violenti, dettati più dalla rabbia e dalla cieca disperazione, iniziò a strattonare l'elastico dei pantaloni dell'altro.

    “Fermo, Timothy. Fermo!”

    Prima che il dolore arrivò il rumore dello schiaffo. Noah poteva essere gracilino ed efebico, ma comunque aveva la forza di un ragazzo in pieno sviluppo, così nell'impatto aveva letteralmente rivoltato la faccia a Timothy che si era immobilizzato, rinsavendo.

    Si toccò a guancia colpita che sotto le dita ustionava e con lentezza riportò lo sguardo su Noah.

    Cosa diamine stava facendo?

    Sconvolto guardò Noah negli occhi, quegli specchi che tanto adorava, ora dilatati, sconvolti, spaventati e pieni di lacrime che ora rigavano quel volto che spesso aveva contemplato. Piangeva per colpa sua. Aveva paura di lui.

    Come un macigno Timothy sentì il cuore tremare e schiantarsi da qualche parte vicino allo stomaco.

    “N-Noah... io... mioddio, mi dispiace”

    Noah aggrottò la fronte, continuando a piangere, spingendolo poi via con forza, ritraendosi, come un cucciolo ferito.

    Un mormorio indistinto arrivò dalle sue labbra e Timothy alzò una mano, titubante, senza sapere se poteva toccarlo o no.

    “Noah...”

    “...-niente. Non hai capito niente. NON HAI CAPITO NIENTE!”

    Noah scatto in piedi, la vista opaca per le lacrime, precipitandosi fuori dalla stanza, lontano da Timothy, lontano dalla paura, investendo quasi suo fratello che con un vassoio in mano apparecchiato con torta e latte stava per bussare alla sua porta.

    Abram si scostò appena in tempo, guardando perplesso Noah per poi corrugare la fronte alla vista delle sue lacrime.

    Guardò Timothy in piedi in mezzo alla stanza, cercando delle risposte, notando la sua guancia arrossata, il volto rigato, lo sguardo sconvolto.

    “Cosa diamine è successo?”, chiese, visibilmente alterato.

    “Io... ho fatto una cosa orribile. Orribile”

    Quello di Timothy era poco più di un mormorio, ma ad Abram bastò. Fece due più due, aggiungendo alla somma anche i segni violacei a forma di dita intravisti sulle spalle del suo fratellino e dandosi appena il tempo di posare sulla scrivania il vassoio con lunghe falcate raggiunse Timothy, premendogli l'avambraccio al livello delle clavicole e sbattendolo al muro.

    Negli occhi c'era la stessa ira di quando picchiava gli stronzi che bullizzavano Noah e Timothy mai avrebbe pensato che quello sguardo potesse un giorno posarsi su di lui.

    “Che cazzo hai fatto?”

    Non erano ammessi giri di parole, lo sguardo parlava chiaro.

    Timothy tentò di rispondere ma grossi singhiozzi gli mozzarono il respiro, per poi scoppiare a piangere come una ragazzina.

    Con difficoltà Abram riuscì a cavare all'altro le parole di bocca, facendosi spiegare a mozziconi cosa diamine era successo.

    A fine spiegazione -una spiegazione piuttosto allucinante fatta per lo più da “mi dispiace” e “sono impazzito”-, Abram mollò la presa sospirando.

    “Siete due cretini. Io lo sapevo che finiva male. Lo sapevo”

    Si passò le mani sul volto, ragionando.

    “Due stupidi, ciechi e testoni. Cristo, Timothy, Noah sono cinque mesi che architetta questo piano allucinante per costringerti ad ammettere che sei innamorato di lui!”

    Ad occhi sgranati, incredulo, Timothy fissava Abram, bocca aperta.

    “E' innamorato di te. Cretino. Quanto tu lo sei di lui, a quanto pare”

    Era innamorato di lui.

    Come marchiate a fuoco queste parole rimbombarono nella sua testa.

    Noah lo amava. Davvero. Tutto quello che aveva fatto in quegli ultimi mesi era per far capitolare lui. Non lo stava ignorando, era tutta un manovra... per lui.

    La scintilla di gioia morì subito quando si rese conto di quello che aveva fatto. Aveva distrutto tutto, ogni cosa che poteva essere l'aveva rasa al suolo sul nascere.

    “Cosa ho fatto?”, si mise le mani tra i capelli, sconvolto.

    Abram sospirò di nuovo, guardando l'altro con un misto di esasperazioni e compassione.

    Erano proprio due ragazzini, incapaci a gestirsi, non c'era altro da aggiungere. Tutto quel casino per cosa? Per un disastro simile. Sarebbe stato meglio se fossero stati sinceri e schietti fin dal principio.

    “Timothy, l'autocommiserazione non ha mai aiutato nessuno. Vai da lui. Chiedi scusa. Raccontagli quello che hai raccontato a me -magari con un po' di senso logico. Digli che lo ami. Digli che ti dispiace. Fate pace. Una cosa così non può rovinare anni di amicizia e un sentimento che siete così convinti di avere uno per l'altro”

    Timothy, sperduto, guardò l'altro, finché un lampo di comprensione gli balenò nello sguardo, dunque annuì.

    Sì, avrebbe fatto così. Lo avrebbe trovato. Avrebbe implorato il suo perdono. Si sarebbe prostrato ai suoi piedi.

    “Io... io vado. Sì! Io-... Grazie Abram”

    Il ragazzo scompigliò la chioma corvina del più piccolo, poi questo riconoscente corse fuori dalla stanza, senza badare a null'altro.

    Sapeva già dove trovare Noah.

    Nel ventre azzurro
    Per ogni prima volta




    A rotta di collo Timothy si lanciò nel corridoio, svoltando l'angolo si concesse un sospiro di sollievo: come aveva immaginato, in fondo, sul soffitto, era spalancata una striminzita botola e la scaletta d'accesso era stata calata.

    Rallentò, avvicinandosi alla scala quasi con deferenza ora, accarezzando il legno dalla laccatura ormai consumata.

    La soffitta. Timothy aveva un sacco di ricordi della soffitta, il luogo dei segreti, il loro fortino quando erano piccoli, il nascondiglio perfetto per due bambini esagitati come erano stati loro.

    Salì i gradini facendo scricchiolare paurosamente la vecchia scala, si fermò quando emerse nella penombra della soffitta con il busto, guardandosi attorno; era un pezzo che non saliva là sopra, eppure era tutto uguale: talmente stipata di roba da farsi venire il mal di testa nel tentativo di abbracciare tutto con lo sguardo. Gli oggetti si ammassavano fino in prossimità della botola, lasciando lo spazio sufficiente a mettere i piedi sul pavimento di tavole grezze.

    In mezzo al caos che circondava la botola risaltava un cassettone dall'aria antica, smaltato di verde e coperto di adesivi delle Maldive, un occhio scrupoloso avrebbe notato come quel cassettone, incuneato tra una libreria stipata di ventilatori e un pianoforte a muro privo di tasti, era l'unico mobile lì attorno privo di polvere.

    Salì gli ultimi gradini, svicolando nell'angusto spazio e salendo sul cassettone avanzando a gattoni.

    Tra alte pareti di varia accozzaglia d'oggetti, dopo il cassettone il percorso continuava con un vecchio baule bombato dalle borchie di rame ormai verdi; a seguire, seguendo la scia di polvere mancante, una pila di enciclopedie tarmate.

    Raggiunse un vecchio mobile componibile, a gradoni piramidale, sul quale si arrampicò, da lassù poteva vedere l'intricato e labirintico percorso che lui e Noah aveva creato anni addietro, una strada segreta che raggiungeva l'angolo più remoto della soffitta, in fondo, sotto l'enorme lucernario.

    Si arrampicò in cima al mobile, sedendosi alla sua sommità, guardando verso il finestrone al quale era appesa una vaporosa zanzariera un tempo di colore blu elettrico, ormai di uno sbiadito celeste.

    Poteva vedere solo il lembo superiore della zanzariera, il resto della visuale era coperto dal ciarpame stipato, ma sapeva che era quella la sua meta e mordicchiandosi nervosamente le labbra Timothy ridiscese il mobile per continuare il complicato percorso.

    Passando dentro un tubo da idraulica arancione del diametro di almeno un metro, scivolando poi sotto la vecchia rete di un letto che sosteneva un'alta pila di giornali di trent'anni prima, raggiunse gli ultimi metri, quelli che loro preferivano, quelli tappezzati da una lunga serie di valige rigide di pelle rossa, tutte ancora incelophanate, sopra le quali loro da bambini si erano sentiti divi del cinema, luminose stelle di Hollywood.

    Come un'oasi in un deserto, il vecchiume ammucchiato finiva di colpo, lasciando spazio attorno a quello che era a tutti gli effetti un piccolo nido.

    Stesi per terra vi erano diversi strati di tappeti, coperte, trapunte, disseminate di cuscini dalle più svariate forme e colori.

    Come congelato, Timothy si fermò di fronte alla zanzariera, come se invece di morbido tulle si trattasse di un'invalicabile barriera magica, come quella Hogwarts.

    Si prese il tempo per abbracciare con lo sguardo quel luogo, quel piccolo fazzoletto di mondo che apparteneva da sempre solo a loro. Quel posto era stato testimone di molti momenti importanti nella vita di entrambi, sin dalla prima volta, quando lo costruirono a quattro anni e sotto un cielo di tulle blu elettrico si giurarono che sarebbero stati amici per sempre.

    Sempre lì si erano consumati i pianti di Noah, quando ancora si chiedeva perché non aveva un padre, prima di giungere alla conclusione che un padre non gli serviva a un accidente se doveva portare tutti quegli scompensi psicologici.

    Sempre lì Noah aveva ammesso sempre fra le lacrime di essere gay.

    Lì Titmothy si era fatto giurare che avrebbero frequentato la stessa scuola superiore.

    Lì Noah aveva scoperto per la prima volta la gioia di mettersi lo smalto, lì Timothy aveva deciso di diventare scrittore di opere illustrate da Noah.

    Lì, senza che nessuno dei due lo sapesse, si erano resi conto, in momenti diversi, di essere innamorati del loro migliore amico.

    Quel luogo era stato campo di guerra, vascello dei pirati, missile spaziale, bosco fatato, era stato rifugio sicuro, dimora accogliente e ancora una volta li abbracciava nel suo ventre azzurro per suggellare un altro momento cruciale di una vita ancora così breve, ma già così faticosa.

    Prese il coraggio a piene mani e spostò la zanzariera, entrando nel cerchio magico.

    I piedi sprofondavano nei vari strati di coperte, ed era un po' come camminare sulle nuvole, nuvole cariche di pioggia in quel momento. La sottile e viscida angoscia di aver rovinato tutto ad attanagliare lo stomaco di Timothy.

    Si avvicinò a Noah, che era seduto nel mezzo dello spazio, le gambe strette al petto circondate con le braccia, la fronte appoggiata alle ginocchia, gli dava le spalle.

    Come per avvicinare un animale ferito, Timothy si sedette a una certa distanza, rispettando la chiusura che l'altro aveva imposto.

    Poteva dire mille cose, fare lunghi discorsi, ma decise di andare dritto al punto.

    “Noah. Mi dispiace. Mi dispiace davvero, davvero tanto”

    Noah non si mosse, rimase in silenzio, fermo come una statua e freddo come pietra.

    Timothy sospirò. Sapeva che sarebbe stato difficile, conosceva Noah abbastanza bene da sapere che una volta ferito era difficile, nell'immediato, scioglierlo.

    Compiacerlo, forse, era una buona mossa.

    “Sono stato un cretino. Un deficiente di prima categoria. Insensibile, grezzo, stupido, ...”, stava finendo gli insulti, non gliene venivano in mente altri, “...idiota... e pusillanime... e... ecco-”

    Stava incespicando e stava anche andando discretamente nel panico. Perché Noah non si girava? Non lo perdonava? E se non lo avesse fatto? Se gli avesse negato il perdono? Che avrebbe fatto lui?

    “Eh.... mi dispiace. Davvero. Io non volevo. E...”, la voce tremò appena, un nodo gli si chiuse in gola, continuare era difficile e quelle spalle stoicamente voltate lo stavamo mandando in pezzi.

    “E davvero, mi rimangio tutto. Non stavo dicendo sul serio, ero solo arrabbiato, e geloso marcio. E io... Noah... Noah ti prego...”

    La frase venne interrotta da un singhiozzo strozzato che ormai Timothy non sapeva più come trattenere e Noah sobbalzò appena.

    “Noah, ti prego. Girati. Perdonami. Ti prego. Io come faccio se non... se tu non mi.... non mi-”, a quel punto Timothy stava piangendo senza alcun ritegno, nel panico più assoluto, come quando da bambino si spaventava e il respiro non veniva più e doveva respirare in un sacchetto per farlo tornare.

    Lo sguardo completamente appannato, il fiato rotto, boccheggiava alla ricerca d'aria, rantolando, nemmeno si accorse che Noah si era spostato.

    “Timothy, ehi. No, Timothy, così non va bene. Shhh. Shhh. Calma, respira”

    Delle mani delicate e fredde gli stavano accarezzando le guance e un paio di braccia sottili gli circondarono la testa.

    Si sentì stringere, il volto premuto contro qualcosa di caldo e rassicurante, che aveva l'odore di Noah.

    Lentamente, cullato dalla voce di Noah che continuava a dirgli di calmarsi come una nenia, riprese a respirare normalmente, rendendosi conto che l'altro era inginocchiato di fronte a lui e lo stava stringendo contro il petto.

    “Mi dispiace”, mormorò tra le lacrime.

    “Lo so”

    “Davvero”

    “L'ho capito”, Noah sospirò, scostandosi un po' da Timothy, ma continuando ad accarezzargli la testa, “Sei uno stupido. Farsi venire una crisi di panico... santo cielo. Mi hai spaventato. Erano anni che non te ne venivano. Poi... pusillanime?”

    Timothy alzò lo sguardo con un mezzo sorriso nervoso, osservando la fronte corrucciata dalla preoccupazione di Noah che lo stava studiando. Notò gli occhi rossi di un pianto recente.

    “Non volevo ferirti. Non volevo farti piangere”

    Noah annuì, guardandolo, in attesa di qualcosa e Timothy capì che quel passo toccava a lui. Glielo doveva.

    “Mi piaci Noah. Tantissimo”

    Noah sorrise e Timothy si sentì in dovere di aggiungere: “Non come amico. Cioè. Ecco, intendevo...”

    Venne zittito da Noah che chinandosi in avanti posò piano le proprie labbra su quelle dell'altro, in un contatto lieve.

    “Anche tu mi piaci. E non come amico”

    Noah sorrideva, trionfante, soddisfatto, come se il suo piano fosse andato perfettamente in porto e Timothy arrossì vistosamente, fino alle orecchie.

    “Mi piaci da parecchio”, aggiunse Noah, con il tono di chi vorrebbe aggiungere: “E tu sei in ritardo, testone”.

    “Tu mi piaci da sempre, Noah. Sempre sempre”

    Noah si chinò di nuovo, baciandolo di nuovo, questa volta Timothy non si lasciò cogliere impreparato e rispose, con la timidezza di chi non sa proprio bene cosa fare ma che ce la sta mettendo tutta.

    Si staccò appena, poi, il respiro leggermente più veloce: “Ma Tyler? Cioè, non ti piaceva lui?”

    Noah si accigliò, seccato da quella interruzione: “Tyler è passivo”.

    “Cosa-?... Oh”

    Realizzare cosa intendeva l'altro lo fece arrossire, di nuovo.

    “E comunque non è il mio tipo. Sai, preferisco gli zucconi con nessun gusto estetico, un po' emo, che arrossiscono facilmente e che non si accorgono del mio bellissimo smalto. Ora, se non ti spiace, abbiamo un bel po' di pomiciate in arretrato da recuperare”

    Tornò sulle labbra di Timothy, che iniziava a essere più sicuro di sé, la delicatezza dei primi baci venne sostituita dall'urgenza di sentire che era tutto reale, che non se lo stavano sognando.

    Si mordevano le labbra, suggendole appena, piano piano il respiro si faceva più affannoso. Noah spinse lentamente all'indietro Timothy, che arrendevole si sdraiò sulle trapunte portandosi dietro l'altro, imprigionandolo tra le braccia, senza staccarsi da quel loro primo bacio.

    “Ah! Noah, il disegno!”

    Noah si alzò leggermente guardando l'altro perplesso e per nulla felice dell'ennesima interruzione, senza ben capire a cosa si riferisse.

    La risposta ce l'aveva sotto gli occhi, dove sul torace nudo di Timothy spiccava il cielo stellato di Van Gogh tutto impiastricciato.

    “Oh. Vabbè. Non mi serve, il progetto l'ho già fatto. Era una scusa per farti spogliare”

    Ancora, preso in contropiede, Timothy arrossì, confuso e per qualche assurdo motivo lusingato, mentre Noah faceva scorrere le mani sul suo petto, facendolo rabbrividire: quel contatto era completamente diverso di quando, poco prima, lo stava dipingendo.

    Le mani erano ora calde e lo sguardo di Noah non era per il dipinto, ma solo per lui, tutto per lui.

    Portò le mani sulle braccia dell'altro, in un carezza lunga, morbida, contemplativa, allora notò, sulla pelle nuda delle spalle, dei segni violacei della forma delle sue dita. Aggrottò la fronte, accarezzando quei segni dove poco prima lo aveva stretto con troppa forza, troppa rabbia.

    Noah si accorse del cambio umorale dell'altro, capendo cosa gli stava passando per la testa.

    “Ehi, non fare quella faccia”

    “Ti ho fatto male”

    “Anche la tua guancia è bella rossa, sai?”

    “Ma tu hai fatto bene, me lo meritavo”

    Noah sospirò, alzando gli occhi al cielo, posando poi la guancia in mezzo allo sterno dell'altro, abbandonandosi completamente.

    “Stringimi. E io vedrò di perdonarti”

    Timothy non se lo fece ripetere e si strinse Noah contro il petto, affondando il naso tra i suoi capelli troppo lunghi, gli occhi posati sul lucernario. Lo strinse stretto, come se volesse inglobarlo completamente, proteggerlo da tutto il mondo, malgrado non è che fosse poi molto più grosso.

    Faceva scorrere le mani sulla sua schiena, percorrendo la linea delle scapole sporgenti, pensando a quante volte avevano sognato una situazione come quella... poter valicare quel confine fisico che l'essere “solo amici” imponeva, e abbracciarsi stretto, desiderandosi e senza vergognarsi per quello.

    I pensieri di Timothy vennero interrotti quando sentì chiaramente qualcosa farsi duro contro la sua gamba.

    “No- Noah. Emh... tu...”

    Noah alzò la testa, leggermente seccato.

    “E' colpa tua. Stringermi così... e tu non è che sei messo meglio” disse, calando una mano a stringere il suo cavallo dei pantaloni, facendolo sussultare.

    “Scusa”, borbottò imbarazzato, sviando lo sguardo.

    “Perché ti scusi?”

    Perché ancora si sentiva in colpa a pensare a Noah in quei termini, ma non aveva il coraggio di dirglielo, si sentiva stupido.

    “Timothy, voglio farlo”

    Sotto di sé, Noah lo sentì chiaramente irrigidirsi, come se gli avesse dato una gomitata nello stomaco. Lo ripugnava tanto l'idea di fare l'amore con lui?

    Lo guardò in volto, ma vi trovò solo due occhi scuri, lucidi, su un volto le cui labbra erano una linea sottile, torturate dai denti. Lo stava guardando come si guarda una cosa preziosissima che si ha il timore di consumare anche solo sfiorandola. Uno sguardo di desiderio di chi non sa se può permetterselo... e là, tra le pieghe delle fronte, si nascondeva una paura fottuta. Di cosa, Noah non lo capiva bene.

    “Noah, io non so come... non ho mai...”

    “Ti guiderò io”

    Rimasero in silenzio, a guardarsi.

    “Timothy, ti amo, ti voglio e voglio appartenerti. E voglio che accada adesso, con te impiastricciato di colore, qui in questo posto. Qui perché è speciale”

    Timothy capiva cosa intendeva. Quel posto... era il posto delle prime volte. Da quelle stupide, come la prima volta che si erano scambiati personalmente i regali di Natale a sei anni, al darsi il loro primo bacio poco prima. Allora, se dovevano donarsi completamente uno all'altro per la prima volta, sembrava estremamente giusto che fosse lì. Noah trovava anche un non so che di meraviglioso che fosse anche la prima primissima volta per Timothy ed era una cosa che stava prendendo quasi come un regalo.

    Timothy lentamente annuì, portandogli una mano sulla nuca, avvicinandolo, baciandolo piano.

    “Mi affido a te, allora”

    Noah ridacchiò sommessamente.

    Era talmente felice che si sarebbe messo a saltare per la stanza, sopra tutto il ciarpame, ma non era forse il caso. Si tirò a sedere sul ventre dell'altro, prendendogli le mani e portandosele sui fianchi.

    “Spogliami”

    Timothy non arrossì questa volta, troppo preso a contemplare dal basso il sorriso di Noah, beandosi della sua immagine; intrufolò le dita sotto il bordo della canotta, alzandogliela, sfiorando piano il ventre piatto dell'altro, il petto ossuto, scoprendo centimetri di pelle chiara, fino a che Noah non terminò il movimento sfilandosela del tutto.

    La canotta sparì da qualche parte dietro di loro e lui riprese le mani di Timothy, portandosele al volto, guardandolo negli occhi con una muta richiesta: toccami, stringimi; non vi era nulla di volgare, o sexy, gli stava chiedendo di conoscersi anche così, scoprirsi anche così, di abbattere tutte le barriere che si erano imposti, di rendere familiare anche al tatto la presenza dell'altro, riempirsene le mani in un diverso genere di scoperta.

    Timothy pensò che fosse così tenero, con gli occhi lucidi, quel mezzo sorriso sulle labbra, il volto leggermente inclinato di lato... esaudì la sua richiesta e fece scorrere le mani verso il basso, ripercorrendo a ritroso il percorso appena fatto, ma questa non era un delicato sfiorare, ma un intenso esplorare a palmi aperti, risalendo poi lungo le braccia, fermandosi sulle spalle e, in un impeto di iniziativa che stupì sé stesso quanto Noah, lo ribaltò, portandosi sopra l'altro ora sdraiato dove stava lui stesso poco prima.

    Si sorrisero, una tenerezza infinita pienamente condivisa: niente maschere, niente paure, non c'erano copioni, nulla da dimostrare, nulla da nascondere, solo loro due, prima di tutto come anime, poi come corpi.

    L'espressione di Timothy si incrinò un attimo di preoccupazione: “Noah, ma non... non abbiamo, emh, quelli”.

    Noah sbatté le palpebre un paio di volte prima di capire a cosa l'altro si riferisse, ritrovandosi a imprecare coloritamente a denti stretti.

    Timothy stava per proporre di lasciar stare, che avrebbero avuto magari un altro momenti, ma Noah scosse la testa: “Non voglio”, quasi facendo i capricci, poi sospirando.

    “Timothy, è la tua prima volta e io sono almeno dieci mesi che non vado con nessuno. Va bene lo stesso anche senza, siamo sanissimi”

    Timothy aggrottò la fronte, realizzando lentamente la cosa: erano dieci mesi che Noah non andava con nessuno; sorvolando sul fatto che era un record senza precedenti per il ragazzino dalla libido prepotente, voleva dire che molte delle storie che gli aveva raccontato erano solo bugie, andando a ricomporre un puzzle molto più ampio di quello che aveva creduto. Aveva davvero tentato di farlo ingelosire in tutti i modi e, beh, si sentiva... lusingato, ecco.

    Noah invece stava prendendo un po' a male il silenzio e l'espressione dell'altro, interrompendo i suoi pensieri portandogli una mano sulla guancia, facendolo quasi sobbalzare.

    “Timothy, non farei mai nulla per metterti in pericolo. Sto dicendo la verità.”

    L'altro sorrise, gli prese la mano e gli baciò il palmo, annuendo: “Lo so. Io mi fido di te”, e Noah quasi si commosse, perché malgrado tutto, raramente la gente si fidava di lui, perché lui era quello con la testa fra le nuvole, quello inaffidabile, quello in fin dei conti facile che apriva le cosce a tutti ma Timothy gli stava dando qualcosa di preziosissimo: il suo corpo, il suo amore, la sua fiducia piena, metteva nelle sue mani anche la sua salute.

    Poi non ci furono più parole, nemmeno resistenze, dubbi.

    Forse c'era l'impacciataggine dell'inesperienza, ammorbidita dall'affetto smisurato che superava di gran lunga la paura di sbagliare, un amore profondo, cristallino, pulito. Non c'era urgenza, nemmeno erotismo, non quella volta, solo un desiderio profondo di unire due corpi le cui anime erano già unite da un pezzo.

    Finirono di spogliarsi del tutto, piano, baciando ogni nuova e vecchia scoperta: un neo, una vecchia cicatrice, una piccola voglia.

    Quando Noah, sotto di lui, fu gloriosamente nudo, gli venne quasi da piangere nell'osservare quel corpo ancora così acerbo, ma così bello, con mani tremanti andò a carezzargli la pelle morbidissima del ventre, scendendo agli spigoli delle anche strette e sporgenti, alla solidità delle cosce, facendo il medesimo percorso anche con le labbra, sentendolo tremare appena sotto i suoi baci.

    “Timothy, devi prepararmi”

    Guardandolo dal basso, annuì. Più o meno sapeva cosa doveva fare, ma ora il timore di fargli male lo stava bloccando.

    Noah se ne accorse, gli prese le mani, lo guidò, intanto gli spiegava con parole che in un altro momento sarebbero state estremamente imbarazzanti, ma che lì, in quell'attimo, erano naturali e Timothy le seguiva annuendo, mentre piano Noah gli succhiava due dita, per poi condurgli la mano tra le proprie gambe, in basso, e Timothy con una delicatezza disarmante iniziò a penetrarlo con quelle, piano, iniziando con una e trovando la carne calda e cedevole, mentre con l'altra mano gli accarezzava il sesso ormai turgido sperando di distrarlo da quella intrusione, perché presumeva dovesse dare fastidio, perché voleva che fosse tutto perfetto per tutti e due.

    Noah si alzò sui gomiti, per baciarlo, a lungo, finché l'altro non aggiunse anche il secondo dito e non riuscì a non farsi sfuggire un ansito, buttando la testa indietro esponendosi ancora di più, allargando le gambe istintivamente.

    “Timothy!”

    Sentendosi invocare fece una cosa che non credeva avrebbe avuto il coraggio di fare; scese con la testa, continuando a muovere le dita dentro Noah, portò le labbra sul suo sesso e senza avere la minima idea di come si dovesse fare lo prese in bocca, stupendo l'altro che approvò con un gemito strozzato male.

    Mentre Timothy si dedicava al suo sesso, leccandolo, succhiando piano, impacciato certo, ma con una dedizione quasi commuovente, Noah sotto di lui si tendeva, inarcando la schiena, sconvolto perché a lui un pompino non glielo aveva mai fatto nessuno; perché a farglielo, bhe, era Timothy, e sarebbe anche potuto essere un disastro completo, ma la sola idea che fosse Timothy... un brivido gli corse giù lungo la schiena, fermandosi nei lombi e Noah tentò di spostare l'altro, ma l'altro testardo non si mosse e quando venne lo fece nella sua bocca, senza coglierlo impreparato.

    Timothy mise una mano a coppa sotto la bocca, lasciandoci scivolare dentro lo sperma di Noah, per poi strofinarci il proprio sesso eretto con l'idea di rendere tutto più scivoloso e con la consapevolezza che, a posteriori, si sarebbe vergognato a morte di quel gesto.

    Sotto di lui Noah aveva ripreso un respiro regolare, lo sguardo completamente liquido, ma al solo vedere tutta la scena, solo guardando Titmothy toccarsi da solo usando il suo sperma per lubrificarsi, sentì di nuovo il sangue defluire dalla testa verso il basso ventre, risvegliando l'erezione.

    Alzò le gambe, imprigionando i fianchi di Timothy e quando questo lo guardò mimò con le labbra: “Ora”.

    Timothy annuì e guidò la propria erezione verso l'entrata di Noah, piano, assestandosi un po' alla volta, cercando di non essere impacciato, entrando con lentezza e una certa premura che Noah gradì enormemente, sentendosi coccolato e viziato da quei gestì così teneri.

    Malgrado fosse tutto abbastanza scivoloso Timothy si trattenne il più possibile per entrare piano e, una volta dentro, si bloccò, stringendo forte Noah tra le braccia, regolarizzando il respiro, sentendo le braccia dell'altro circondargli il collo e stringerlo altrettanto forte.

    Rimasero immobili, finché non sentirono i propri respiri in perfetta armonia, poi iniziarono a muoversi, senza fretta, avevano aspettato tanto per arrivare a quel momento che volevano goderselo per bene.

    Timothy era completamente privo dell'irruenza dei precedenti partner di Noah, era delicato invece e il ragazzino la trovava una cosa carinissima, sospirando il suo apprezzamento direttamente all'orecchio dell'altro, inarcando la schiena mentre entrava e usciva dal suo corpo, stringendo maggiormente la presa attorno ai suoi fianchi.

    Timothy mormorava frasi sconnesse e forse era meglio così, almeno non se ne sarebbe vergognato dopo.

    Eccitati e sudati, Timothy perse il lume della ragione quando sentì Noah fremere e stringere la carne attorno al suo sesso e con un verso rauco, invocandolo, venne dentro di lui, stringendolo possessivamente mentre gli balenava l'idea un po' contorta che ora Noah era completamente suo e sulla stessa idea, sentendosi riempire dall'altro, Noah venne sporcando i loro ventri, mordendogli una spalla per non gridare troppo forte.

    Rimasero fermi così, allacciati, riprendendo il respiro, tremando appena, per lo sforzo, per l'orgasmo, per la troppa felicità.

    “Non ti lascerò mai più a nessun'altro”, mormorò Timothy, piano.

    “Non vorrò mai più nessun'altro”

    Sorrisero, nascosti uno nell'incavo del collo dell'altro, e quelle parole non c'era bisogno di giurarle perché le sentivano così vere che aggiungere altro era solo superfluo.

    A tentoni con una mano Timothy cercò il lembo di una delle trapunte e se l'avvolse addosso, coprendo entrambi, chiarendo l'intenzione di voler rimanere così ancora per un po' e Noah sorrise, baciandolo leggero sulle labbra, felice.

    Nessuno dei due, si resero conto, aveva bisogno d'altro per essere davvero e profondamente a posto con il mondo, pienamente felici. Tranne forse qualche boccetta di smalto.

    Alla fine di tutto il piano non era stato, poi, così imperfetto.

    Edited by _-Hope-_ - 25/5/2016, 17:06
     
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