» Secret Whispers GDR - Yaoi, Yuri, Hentai, GDR Yaoi, GDR Yuri, GDR Hentai

Votes taken by Seebaru

  1. .
    *resuscita dagli inferi*
    Sono inattiva da un po' e per varie ragioni non posso leggere tutte le role che voglio come facevo un tempo, ma essendo stata una Reader Sama a mio tempo ho pensato di dire la mia su questo argomento.

    L'iniziativa è molto carina, e sicuramente la vittoria dà una bella sensazione, specie se abbinata a una recensione scritta con cura. Quello che mi dà da pensare, però, è che in generale il lavoro di Reader Sama tende a essere oneroso, perché se una categoria presenta molte candidature si finisce per dover gestire una grossa quantità di lavoro: letture di role anche molto lunghe, dover tenere appunti sulle storie e sui personaggi per non lasciarsi sfuggire niente, per non parlare poi del commento da scrivere a conclusione, che deve tener conto dei vari fattori. A meno che non si abbia a disposizione abbondante tempo libero per gestire il tutto, diventa facilmente un lavoro pesante, che in effetti è anche parte del motivo per cui a mio tempo mi ero ritirata dal ruolo.
    Bisogna aggiungere anche il fatto che nelle recensioni in teoria bisognerebbe mantenere un'opinione oggettiva, ma la verità è che un'opinione oggettiva non esiste: ogni Reader Sama è diverso e sfrutta diversi criteri di valutazione, infatti una role criticata da uno potrebbe essere elogiata ed eletta a Miglior Role del Mese da un altro. I lettori non sono sempre d'accordo con i risultati e anche questo va tenuto in conto.

    Insomma, a mio parere l'iniziativa andrebbe rinnovata. Un'idea che avevo in mente era di permettere a chi ha letto le role di candidare le proprie preferite, magari con qualche limitazione (come il non candidare delle role cui partecipano loro stessi), e quindi far vincere la role che ha collezionato più candidature, oppure prendere le role a pari merito e aprire un sondaggio. Una volta eletta la role si potranno quindi scrivere le recensioni a piacimento.
    Non so se sarebbe troppo macchinosa o troppo confusionaria come idea, ma dato che in fin dei conti l'opinione di uno non è necessariamente migliore o più meritevole di un altro, dare più potere decisionale agli utenti per quanto riguarda la scelta del vincitore mi pare una direzione giusta.
  2. .
    Sto lurkando tantissimo negli ultimi tempi, ma non sono morta. Tornerò! ><
  3. .
    Per rompere il ghiaccio, comincio io con uno dei miei personaggi prediletti: Ares!

    Domande

    1. Qual è il tuo nome?
    Ares.

    2. Sai come mai sei stato chiamato così?
    Certo: Ares è l'unione del nome di mia madre (Era) scritto al contrario, più la lettera finale del nome di mio padre (Zeus). Mi prendi in giro, vero?

    3. Sei single o impegnato?
    Vorrei essere impegnato con Aristeo, ma la situazione sembra ancora molto spinosa e comincio a dubitare che lui voglia la stessa cosa.

    4. Hai delle abilità o dei poteri?
    Sono un dio. Sono capace di far comparire i miei strumenti divini a piacimento, di manipolare il clima entro certi limiti... e si può dire che in casa mia io sia praticamente onnipotente. Come dio della guerra, poi, sono abbastanza forte da poter combattere in una guerra per decine di anni senza stancarmi.

    5. Smetti di essere una Mary Sue.
    Come ho già detto, io sono un dio. Non puoi certo aspettarti che io sia un debole come un mortale qualunque.

    6. Di che colore sono i tuoi occhi?
    Nella mia forma divina sono scarlatti, mentre nella mia forma umana sono di un colore più simile al nocciola e al ruggine.

    7. Di che colore sono i tuoi capelli?
    Rossi.

    8. Hai dei parenti?
    Hai voglia di scherzare? Sono meno numerosi quelli che non sono miei parenti.

    9. Oh? E degli animali domestici?
    Ho numerosi cavalli da guerra e tantissimi cani da caccia.

    10. Non male. Ora dimmi di qualcosa che non ti piace.
    Gli abbracci. Non è che li odi, ma non mi fanno impazzire. Oh, e la frutta. Tranne certe mele.

    11. Ci sono attività/hobby che ti piace fare?
    Trucidare mortali sarà sempre il mio hobby preferito.

    12. Hai mai ferito qualcuno in un modo qualsiasi?
    Oh, ma no, figurati, quando mai. *sarcastico*

    13. Hai mai... ucciso nessuno?
    Chi, io?

    14. Che specie di animale sei?
    Sono il tuo peggiore incubo violento. O il tuo miglior sogno erotico. A te la scelta.

    15. Parla della tua peggiore abitudine.
    Io non ho cattive abitudini, sono solo circondato da persone pessime ad adattarsi a me.

    16. C'è qualcuno che ammiri?
    No.

    17. Sei gay, etero o bisessuale?
    Sono etero! Però amo Aristeo.

    18. Vai a scuola?
    No, né ci sono mai andato. Quella è roba da mortali.

    19. Vorresti mai sposarti e avere dei figli un giorno?
    Ho già parecchi figli, quindi non credo questa domanda sia valida. *evita accuratamente la domanda sul matrimonio*

    20. Hai delle fangirl/fanboy?
    Aristeo è sicuramente il mio fanboy numero uno. La tizia che scrive i suoi post nel gioco di ruolo dev'essere la mia fangirl numero uno, credo.

    21. Cosa ti spaventa di più?
    Non c'è niente che mi spaventi da quando ho l'exaleiptron.

    22. Che vestiti indossi di solito?
    L'armatura di bronzo è l'abbigliamento che preferisco, perché mi ci trovo davvero a mio agio. Quando sono tra i mortali però incute molta paura e mi fa saltare troppo all'occhio, quindi in genere porto un chitone e dei sandali.

    23. Qual è il cibo che ti tenta di più?
    L'ambrosia. I mortali non possono mangiarne, ma chi la assaggia una volta non si accontenta più del sapore di un qualsiasi altro cibo.

    25. Beh, non è ancora finita!
    Ne hai ancora?! Oh, facciamola finita!

    26. Di che classe sei?
    Ovviamente sono di prima classe. Il meglio del meglio.

    27. Quanti amici hai?
    ...

    28. Cosa ne pensi delle torte?
    Preferisco quelle con strato più alto.

    29. Bevanda preferita?
    Nettare.

    30. Qual è il tuo posto preferito?
    In Tracia c'è un bel posto nel folto del bosco dove mi piace molto stare.

    31. C'è qualcuno che ti interessa?
    Sì. Penso che molto presto lo prenderò per portarmelo via.

    32. Quella era una domanda stupida.
    Sì.

    33. Preferiresti nuotare in un lago o nell'oceano?
    I laghi ultimamente mi attirano di più.

    34. Qual è il tuo tipo?
    Mi piacciono i capelli biondi e lunghi, la pelle chiara e gli occhi luminosi. Poi deve avere un bel culetto rotondo e ######## ******* $£%*$%#* [trasmissione interrotta]

    35. Hai dei fetish?
    Tu mettimi alla prova.

    36. Campeggio o aria aperta?
    Accampamenti vicino al campo di battaglia, ovviamente.
  4. .
    Ho trovato questo meme su deviantart e mi sono detta: perché no?

    Regole:
    1. Scegli un OC.
    2. Rispondi alle domande/affermazioni come se fossi quel personaggio.
    3. Tagga quattro persone perché facciano questo meme. (qui sul Secret purtroppo non è possibile, quindi chi ha voglia lo faccia >w< )



    CITAZIONE
    Domande

    1. Qual è il tuo nome?

    2. Sai come mai sei stato chiamato così?

    3. Sei single o impegnato?

    4. Hai delle abilità o dei poteri?

    5. Smetti di essere una Mary Sue.

    6. Di che colore sono i tuoi occhi?

    7. Di che colore sono i tuoi capelli?

    8. Hai dei parenti?

    9. Oh? E degli animali domestici?

    10. Non male. Ora dimmi di qualcosa che non ti piace.

    11. Ci sono attività/hobby che ti piace fare?

    12. Hai mai ferito qualcuno in un modo qualsiasi?

    13. Hai mai... ucciso nessuno?

    14. Che specie di animale sei?

    15. Parla della tua peggiore abitudine.

    16. C'è qualcuno che ammiri?

    17. Sei gay, etero o bisessuale?

    18. Vai a scuola?

    19. Vorresti mai sposarti e avere dei figli un giorno?

    20. Hai delle fangirl/fanboy?

    21. Cosa ti spaventa di più?

    22. Che vestiti indossi di solito?

    23. Qual è il cibo che ti tenta di più?

    25. Beh, non è ancora finita!

    26. Di che classe sei?

    27. Quanti amici hai?

    28. Cosa ne pensi delle torte?

    29. Bevanda preferita?

    30. Qual è il tuo posto preferito?

    31. C'è qualcuno che ti interessa?

    32. Quella era una domanda stupida.

    33. Preferiresti nuotare in un lago o nell'oceano?

    34. Qual è il tuo tipo?

    35. Hai dei fetish?

    36. Campeggio o aria aperta?
  5. .
    CITAZIONE (Domityk @ 2/5/2016, 21:04) 
    Riguardo le Role cerco prevalentemente quelle di tipo yuri, ma non mi dispiacerebbe provare quelle di tipo Hentai (gli Yaoi no perché è brutto u.u)

    Ti stimo per lo yuri, ma sappi che qualcuno in questo forum se la prenderà per quella nota tra parentesi. x°°
    Benvenuto! E speriamo che la terza volta sia quella buona. 8) Hai fatto una bella presentazione e non mi viene in mente assolutamente nulla da chiederti. °,°

    Per quanto riguarda le schede, è molto semplice: se guardi in cima alla pagina, sopra il logo, c'è un link con su scritto "schede". Cliccaci sopra e verrai reindirizzato alla sezione dove postare la scheda del tuo personaggio. Lì troverai anche delle discussioni con il titolo in grassetto rosa, che sono proprio gli scheletri delle schede che ti interessano. °w° scegli il tipo di scheda che ti interessa a seconda del tipo di personaggio (se omosessuale, eterosessuale o bisessuale) e copia il codice che trovi sotto lo spoiler: compila quello e pubblicalo come nuova discussione e il gioco è fatto. xP
    Ricordati anche di leggere il regolamento GDR. Nella sezione "GDR Info Point" ci sono tutte le informazioni che ti servono! xP se invece proprio non riesci a trovare una risposta a una domanda puoi sempre chiedere qualcosa nel topic "Dubbi e consigli".
    Spero di esserti stata utile! ^__^
  6. .
    .Titolo: Exaleiptron
    .Autore: Seebaru
    .Fandom: Ares x Aristeo
    .Personaggi: Ares, Aristeo, altri
    .Avvertimenti: nessuno
    .Rating: giallo
    .Genere: sentimentale, flashback
    .Breve introduzione:
    La freccia di Eros è un'arma estremamente potente. Non manca mai di colpire il suo bersaglio e in genere solo un animo molto forte è capace di guarire da una ferita del genere.
    Quel giorno Eros scoccò due frecce, una dietro l'altra; mai si sarebbe aspettato, tuttavia, di dover fronteggiare una battaglia per via del proprio gesto.
    .Note dell'Autrice: Questa fanfiction contiene spoiler riguardo lo svolgimento della role AresxAristeo, specialmente per quanto riguarda il passato di Ares. Questi eventi non sono un "what if" o una situazione ipotetica, ma fatti che andranno a ricollegarsi alla role in corso.

    Exaleiptron

    Il ragazzo era biondo, con brillanti occhi azzurri e pelle chiara. A vederlo di sfuggita sarebbe potuto tranquillamente passare per una ragazza, ma più parlava e si muoveva, meno spazio si lasciava a dubbi di quel tipo. Lo sguardo che Ares stava rivolgendo a quel giovane, sempre più acceso da una voglia in costante crescita, era impossibile da equivocare.
    Eros sorrise, negli occhi rossi la stessa luce divertita che spesso compariva nello sguardo del dio della guerra e nel sorriso la stessa dolcezza incantevole della dea della bellezza. Prese il proprio arco e dalla faretra trasse una freccia dalla punta acuminata e scintillante.
    Era stato richiamato da quello scenario, incuriosito nel vedere cos'avrebbe fatto Ares contro un ragazzino mortale come quello. Da un primo momento in cui pareva solo intenzionato a cercare un divertimento innocente, le cose erano degenerate in gesti più audaci e intimi da parte sua. La parte più curiosa era nel fatto che Aristeo - quello era il nome del mortale, stando a quanto Eros aveva compreso nel guardarli di nascosto - non pareva essersi affatto reso conto della brutta situazione in cui si era cacciato. Ancora poco e il dio della guerra lo avrebbe usato a piacimento e poi buttato via, come uno straccio. Accadeva sempre così: le donne erano una calamita per le frecce di Eros, a volte, quando Ares entrava in confidenza con loro... e probabilmente era così anche per gli uomini, anche se Eros non aveva mai quel dio interessarsi a un maschio in quel senso.
    Fatto stava che, mentre aspettava di scoccare la freccia, Eros pensò a un'idea divertente. Sorrise di più, mentre spostava la mira dal cuore giovane e palpitante di Aristeo a quello assetato di sangue di Ares.
    Sarebbe stato interessante vedere Ares cedere per primo al potere delle sue frecce. Chissà che umiliazione, per lui, vedersi vittima di un incanto potente come quello che lo vedeva correre dietro alle grazie di un mortale! Maschio, per di più! Una tentazione troppo ghiotta, una situazione troppo azzeccata e perfetta per lasciarsela sfuggire.
    Fu così che, finalmente, Eros tese l'arco. Sorrise.
    «Vediamo un po' come farai adesso».
    La freccia schizzò via con un sibilo appena accennato, silenziosa mentre fendeva l'aria dritta verso il proprio obiettivo. Ares non si accorse di niente, impegnato a tastare il corpo piccolo e caldo di Aristeo e a pregustarsi il divertimento di quella giornata.
    Fu colpito in pieno. All'inizio nessuno vedeva quello spettacolo, se non Eros stesso: la freccia per tutti gli altri era invisibile, la ferita spesso impossibile da avvertire. La punta, comunque, raggiunse tranquillamente il corpo del dio, conficcandosi alla perfezione.
    Nello stesso istante, però, Eros udì qualcosa che non si aspettava. Un rumore cupo e vacuo, insolito, che lo raggiunse proprio dal punto in cui la freccia aveva leso il cuore dell'immortale. Gli rimbombò nelle orecchie come un'eco minacciosa, che gli fece perdere il sorriso e aguzzare la vista sul quadretto che aveva davanti.
    Qualcosa era andato storto - ne era sicuro, ma non aveva prove a sostegno di quel presentimento. Ares nel frattempo stava ritornando sui suoi passi: lasciò andare Aristeo in modo brusco, intimandogli di andarsene e minacciandolo per un loro ipotetico incontro futuro. Minacce vuote, come Eros sapeva bene; non avrebbe mai più osato torcere un capello ad Aristeo, finché i suoi sentimenti d'amore gliel'avessero impedito.
    Eppure c'era ancora un tassello fuori posto. Un elemento mancante, in quell'intera situazione.
    Cos'era stato quel rumore che aveva sentito prima? Che cosa l'aveva causato?
    Che un dio si ritrovasse spaesato davanti agli esiti del suo stesso incantesimo era davvero inaudito. Eros si fece cupo in viso, spiegando le enormi ali per prendere il volo.
    Aveva intenzione di scoprire cos'era successo... e l'avrebbe fatto partendo dalle radici stesse dell'amore.

    «Eros, che gioia vederti!» esclamò Afrodite quando lo vide, rivolgendogli un sorriso radioso. La bellissima dea dell'amore era avvolta in un peplo color pesca e profumava di fiori; Eros era arrivato nelle stanze private della sua immensa dimora in cima all'Olimpo proprio mentre lei era intenta a farsi cospargere i capelli di oli profumati e fiori freschi.
    Il giovane dio le sorrise, sentendo distintamente lo stomaco contrarsi nel vederla così felice. Anche se era suo figlio, Afrodite rappresentava esattamente il tipo di dolce, attraente tentazione che a lui piaceva tanto. Nessuno era immune all'attrazione primordiale che lei suscitava.
    Mentre la abbracciava e la baciava nel ricambiare il saluto, Eros non riuscì a sforzarsi di sorridere. I suoi occhi rossi continuavano ad essere pensierosi e Afrodite non si lasciò sfuggire quel particolare. Quest'ultima lo prese per mano e lo condusse al proprio letto.
    «Lasciateci, ora! Voglio poter parlare liberamente con Eros».
    Lo invitò a distendersi sul letto. Lei si accomodò sul bordo e gli fece appoggiare il capo sul suo grembo. Eros sospirò e chiuse gli occhi, godendo della sensazione soffice e confortevole di quel contatto. Afrodite parlò solo quando furono soli.
    «Hai giocato uno scherzo di pessimo gusto ad Ares» osservò.
    Il figlio la guardò sorpreso. «Lo sai?»
    Lei annuì. «Lo so. Sei sempre stato irriverente, sin da quando sei comparso nel pantheon... ma non avrei mai creduto che Ares sarebbe finito nelle tue mire». Il suo sguardo si era fatto malinconico. Improvvisamente la sua gioia pareva appassita, tanto da far stringere il cuore. «Era solo questione di tempo, forse. Dopotutto non ti sei mai fatto scrupoli a colpire chiunque volessi: io stessa sono stata una tua vittima in più di un'occasione».
    Eros sorrise leggermente al pensiero. «Questo mi rende le cose più semplici. Sai già perché sono qui?»
    «Non sei qui per vedere il mio bel viso e godere della mia compagnia?»
    «Mi piacerebbe poter dire di sì, madre» mormorò distrattamente Eros, sollevano una mano per carezzarle delicatamente la guancia. Afrodite non si scostò, ma il dio sapeva bene che quello non equivaleva a un invito. «La verità è che, quando ho colpito Ares, la freccia ha fatto uno strano rumore». Fece una pausa, ma visto che l'altra non stava dicendo nulla, proseguì: «Era strano, mi è rimbombato nelle orecchie. Come se...»
    «Come se la punta fosse affondata nel vuoto, anziché nel suo bersaglio. Ho indovinato?» lo interruppe Afrodite, completando la frase al posto suo. «Le tue frecce sono davvero potenti come sembrano. Sono riuscite anche a scoprire un segreto del genere. Non ti si può proprio nascondere nulla, Eros».
    Il dio dell'amore si fece più attento, spiegando appena le ali e guardando più attento il viso della madre dalla propria posizione. «Quindi tu sai che significa. Dimmi tutto!»
    Lei gli rivolse un sorriso malinconico. «Te lo dirò, Eros, anche se non è una bella storia. Risale a molto tempo fa, quando ancora l'Olimpo non era popolato che dai Dodici: prima che tu nascessi». Il suo sguardo trasognato si perse verso i tendaggi colorati e le suppellettili eleganti sparsi per la stanza. «A quel tempo non esisteva un vero amore romantico. Io ero l'unica vera dea dell'amore e i sentimenti erano legati soprattutto all'istinto, al desiderio carnale. Il matrimonio non esisteva, così come non c'erano gli amori eterni e imperituri di oggi. E' così che tutto è cominciato».
    Fu così che, carezzando delicatamente i capelli biondi del dio dell'innamoramento, Afrodite cominciò a raccontare.

    Ares a quel tempo trascorreva molto più tempo sull'Olimpo, insieme alle altre divinità, anche se il tempo trascorso in Tracia in mezzo ai mortali continuava ad essere prezioso e speciale per lui. Era lui, soprattutto, a scatenare gli animi volubili degli dei, in quei tempi: Afrodite era ancora libera dal vincolo del matrimonio con Efesto e non c'era uomo immortale, su quella vetta, che non desiderasse ardentemente di poterla avere tutta per sé. Come era ovvio concludere, la dea non si faceva scrupoli nel dedicare le proprie dolci attenzioni a chiunque se ne dimostrasse degno nel corso di una giornata.
    Per quanto potesse sembrare strano, Ares non era tanto preso da Afrodite, a quel tempo - sarebbe stata l'idea dell'adulterio, del possedere una donna vincolata a un altro uomo, ad accendere in lui la passione in futuro.
    L'inizio della vicenda coincise con una festa in nome di Artemide, tenutasi sull'Olimpo. Per l'occasione Zeus aveva popolato il banchetto delle scarse divinità minori allora presenti: la moltitudine di ninfe procreate dai titani, i satiri, gli spiriti dei focolari, i daemon protettori dei mortali. Ci furono canti, balli e cibi deliziosi, e furono serviti ambrosia e nettare in gran quantità. Nessuno esitò nemmeno nello spingersi oltre con i divertimenti: qualcuno si azzardò a sollevare la stoffa di un paio di pepli, occhiate lascive corsero da un lato all'altro della lunga tavola imbandita, delle labbra si avvicinarono in baci umidi che sapevano di vino.
    Fu allora che, mentre Ares con una mano si portava alla bocca altri teneri bocconi di selvaggina cosparsa di odori, all'altra sentì distintamente il proprio calice che veniva nuovamente riempito. Si voltò per vedere chi era stato a versargli ancora vino.
    Il suo sguardo acceso incrociò quello cristallino di una ninfa. I suoi occhi erano chiari e azzurri come le acque di un lago, cui probabilmente era legata la sua natura: lo diceva il suo peplo decorato da fiori con petali grandi e carnosi, lo diceva la sua pelle tanto bianca da sembrare quella di uno spettro - come se non si fosse trovata davvero lì, ma avesse lasciato un pezzo di se stessa nel lago da cui era stata generata.
    I due si scambiarono un'occhiata penetrante. Alla fine Ares abbandonò il proprio calice e la costrinse ad avvicinarsi di più, annullando le distanze tra i loro corpi.
    Avvenne così, senza una parola, senza una promessa da parte di nessuno. Si erano visti, si erano desiderati per un istante ed era stato sufficiente. Per lei il fatto che Ares fosse il dio della guerra non aveva alcuna importanza: l'amore, a quel tempo, aveva quella natura. Per lui, allo stesso modo, bastò conoscere il suo nome: Bistonis.
    I due cominciarono a vedersi praticamente ogni giorno. Si rincorrevano nel bosco che accoglieva il lago della ninfa, si distendevano al sole uno accanto all'altra, si rotolavano insieme tra i cespugli di fiori selvatici e l'erba alta. Ares era preso da lei come solo un dio poteva esserlo.
    Un giorno, tuttavia, Bistonis fu sorpresa da due mortali mentre faceva il bagno e venne violentata. Ares riuscì a raggiungerli solo quando ormai quegli uomini erano già intenti a macchiarla; fu allora che, preso dall'ira, trafisse entrambi con la lancia più volte, finché di entrambi non rimase che un ammasso di carne sanguinolenta che tinse quel terreno fertile e puro.
    Bistonis non si riprese mai da quell'evento. Ares tentò più volte di risollevarla, ma per quanto le dedicasse baci e gesti gentili, per quanto delicato si mostrasse nei suoi confronti, la ninfa non tornò mai più a sorridere. Si sentiva sporca, e quella macchia non era niente che nemmeno il suo amore per Ares potesse rimuovere in nessuna maniera. Resistette non più di un quarto di luna, dopodiché rubò all'amato la sua arma prediletta e si uccise.
    Ares, furioso per l'esito di quella vicenda, fu inavvicinabile per un periodo che parve infinito. L'umanità si bagnò di sangue con battaglie e guerre interminabili, senza che la pace raggiungesse alcun angolo conosciuto: Gaia si tinse di rosso. Nemmeno Eris osò avvicinarsi al fratello, tanto violento fu il suo furore.
    Incapaci di sostenere ulteriormente quella situazione, Zeus ed Era tentarono di placare la sua ira. Ares, tuttavia, non fu capace di ascoltarli.
    «Perché ascoltare i mortali e le loro preghiere? Perché mostrare pietà verso qualcuno che non fa che usarci per i propri scopi? Come dio, perché dovrei essere agli ordini di uno schifoso microbo? Che muoiano tutti, piuttosto! Non mi fermerò finché non saranno tutti sterminati!»
    Era, imperturbabile, gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, leggera. «Ares, devi placarti. Non puoi continuare a crogiolarti nel tuo dolore in questo modo».
    Gli occhi del dio della guerra lampeggiarono d'ira. «Non dirlo! Non dirmi di calmarmi! Come puoi parlare come se sapessi tutto? Tu non hai idea di cosa io stia provando!»
    Il re e la regina dell'Olimpo si guardarono, scambiandosi un'occhiata d'intesa che tra loro due era una rarità. Infine fu Zeus a parlare.
    «C'è un modo perché tu possa smettere per sempre di soffrire».
    Ares continuò a guardare entrambi minaccioso. «Come pensate di farlo? Non ho intenzione di cavarmi il cuore dal petto».
    Era gli sorrise dolce. «Non ti chiederemmo mai di fare una cosa del genere. Così facendo non soffriresti più, ma oltre a questo, per te ogni genere di sentimento perderebbe di significato... e questo ti porterebbe anche a dimenticare per sempre ciò che Bistonis è stato per te. C'è un altro modo, tuttavia, in cui tu potrai liberarti dal dolore senza rinnegare ciò che è stato».
    Ares tenne la fronte aggrottata, ma restò in ascolto. «Ebbene?»
    Fu così che, come unico dono al figlio tanto odiato, Zeus ed Era diedero ad Ares un contenitore in ceramica. Su di esso era stata raffigurata, rosso su nero, la scena di un guerriero e una giovane donna che correvano tra gli alberi.

    «Era un Exaleiptron divino» spiegò Afrodite, continuando a raccontare. «Un contenitore speciale in cui si potevano rinchiudere le emozioni. Nel caso di un mortale, può anche racchiuderle tutte; se si tratta di un dio, può contenerne due. L'Exaleiptron le custodisce dentro di sé in modo che non possano raggiungere il proprietario, se non aprendo il contenitore o distruggendolo».
    Eros sgranò gli occhi rossi, sollevandosi dal grembo della madre per mettersi a sedere e guardarla sconvolto. «E che cosa fece Ares? Lo sterminio finì, il suo strazio è sicuramente finito, ma in che modo l'ha fatto?»
    «Ares scelse di rinchiudervi la propria tristezza, in modo da non dover mai più provare un simile dolore una seconda volta» rispose Afrodite, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, ora posate sul grembo vuoto «e la propria paura, per non provare mai più timore davanti alle possibili minacce, specialmente da parte dei mortali».
    Eros scosse la testa. «Non è possibile».
    La dea ridacchiò. «Sempre testardo, Eros, figlio mio! Eppure è così. Da allora Ares non fu mai più visto in preda alla tristezza, né alla paura. Bistonis era morta, e lui riuscì a mettere da parte i propri sentimenti per lei una volta per tutte: non ha senso che un dio dedichi la propria esistenza al dolore per la perdita di un'amante anonima come quella, e finalmente lui riuscì a ritrovare il senno e ad andare avanti».
    Sembrava molto soddisfatta di quell'esito. Eros si disse che per Afrodite non aveva senso preoccuparsi degli altri, finché non veniva coinvolta personalmente: forse il suo unico interesse era di poter avere una propria esclusiva su Ares - magari non come innamorata, ma certamente come amante prediletta.
    Quell'intera storia aveva sconvolto il dio dell'amore più di quanto Afrodite stessa si era immaginata. Era impallidito, sconvolto all'idea di ciò che comportava l'esistenza di quell'Exaleiptron.
    «E' ovvio, quindi, che la mia freccia abbia fatto quel rumore» mormorò Eros tra sé. «Non ha portato a termine il proprio compito. Senza tristezza e paura Ares potrà anche amare con trasporto qualcuno, gioire della sua presenza e adirarsi quando le cose non vanno a suo favore... ma non potrà mai avere paura di perderlo, o che gli succeda qualcosa. Se al suo amante capitasse qualcosa, o se morisse, Ares non proverebbe alcun dolore».
    Afrodite sorrise melliflua. «E' sufficiente che Ares si crogioli nella metà bella dell'amore: quella fatta di gioia e di giochi tra le lenzuola. Per quanto mi riguarda, l'Exaleiptron può restare ben chiuso e al sicuro dove si trova... e lo dico come dea dell'amore originaria, Eros».

    Quella storia aveva un sapore amaro sulla lingua di Eros, che improvvisamente non trovò più lo scherzo fatto al dio della guerra così spassoso come aveva creduto. Non c'era divertimento nell'osservare un amore a metà: doveva esserci anche struggimento, gelosia, desiderio di protezione per essere autentico.
    Sospirò lievemente mentre continuava a osservare Ares e Aristeo. Il primo era andato a cercare il giovane mortale direttamente a casa sua, seguendo più o meno il comportamento di qualunque futuro innamorato, pur non rendendosene conto pienamente. Aristeo era davvero contento, a vedersi.
    Che sciocco. Lui non sa che quei sentimenti sono privi di sostegni solidi, pensò Eros.
    «Sono davvero belli insieme» mormorò una voce al suo orecchio, facendolo sobbalzare.
    Accanto a lui c'era Anteros, comparso dal nulla. Osservava con occhi chiari la scena, sulle labbra un sorriso vagamente interessato.
    «Questa faccenda non è per te, fidati. Vattene via!» borbottò Eros. «Ehi!»
    Anteros aveva già preso il suo arco, insieme a una freccia dorata. Gli sorrise tranquillo.
    «Ti divertiresti a vedere ancora Ares stare alla mercé di un mortale, vero? Io credo che quel ragazzo sia già più che pronto per ricambiare il suo amore».
    «E' troppo presto, non lo vedi?» ribatté Eros. «E comunque non ne vale la pena. L'amore di Ares non arriverà mai abbastanza in profondità da poterlo ricam... aspetta, no! Anteros, sul serio, fermati!»
    Troppo tardi. Anteros aveva già teso l'arco e scoccato la freccia, che si andò a conficcare nel cuore di Aristeo in un movimento fulmineo quanto silenzioso. Il giovane dio dell'amore corrisposto ridacchiò mentre restituiva l'arco al fratello.
    «Hai l'aria sconvolta, Eros, dovresti vederti! E dire che non ti sei mai preoccupato delle conseguenze di un amore, prima d'ora. Non è che questa storia ti sta interessando più di quanto tu non voglia dare a vedere?»
    Suo fratello non capiva, perché non sapeva cos'era successo quando era stata scagliata la prima freccia. Eros restò a guardare, quindi, mentre il cuore di Aristeo si scaldava per il nuovo sentimento appena sbocciato e il suo sorriso gli illuminava lo sguardo come mai era successo prima.

    Il dio dell'amore si era rassegnato, ormai, per quella faccenda. Ares era troppo orgoglioso per poter ammettere con leggerezza di essere innamorato di un uomo, inoltre i suoi sentimenti incompleti non sarebbero mai stati sufficienti a ricambiare l'amore puro e integro di qualcun altro, anche se mortale.
    Eros si sorprese, quindi, quando vide il padre giungere al suo cospetto senza preavviso, con espressione seria in volto e il portamento di chi sta per dichiarare guerra.
    «Alla fine sei venuto qui» osservò il giovane dio, spiegando leggermente le ali con l'avvicinarsi di Ares. Si sentiva sempre in soggezione quando si trovava nelle sue vicinanze. «Ero convinto che non te ne saresti mai accorto... anzi, che non saresti mai stato disposto ad ammetterlo».
    L'espressione del dio gli suggerì che aveva centrato il punto. Il dio della guerra non pareva avere intenzione di prolungare ulteriormente il discorso.
    «Quindi è così» mormorò Ares. «Sono innamorato di Aristeo. Hai davvero scagliato quella freccia contro di me. Da quando?»
    Eros si strinse nelle spalle. «Eravate vicino a un tempio distrutto. Tu lo volevi violentare. Ricordi?»
    Ares annuì. «Il nostro primo incontro. Così si risolvono anche due o tre dubbi che mi portavo dietro da qualche tempo. Non è normale che mi lasci convincere da un semplice mortale a non usare la violenza, dopotutto».
    Ci fu un lungo silenzio. Eros teneva la testa alta, deciso a fronteggiare Ares a viso aperto senza lasciarsi intimidire. Quest'ultimo dopo un po' gli diede le spalle.
    «Tutto qui?» Eros s'indignò, muovendo due passi avanti. «Non volevi dirmi nient'altro?»
    Ares rise leggermente. «Cos'altro vuoi che ti dica? Ho saputo quello che mi occorreva. Volevo esserne sicuro prima di decidere come comportarmi».
    Si allontanò ancora, diretto al proprio carro. Eros, tuttavia, non riuscì a trattenersi.
    «Credi forse che il mio dardo possa farti alcunché, senza che tu apra l'Exaleiptron?»
    Lo vide fermarsi di colpo, le spalle improvvisamente tese. Non si voltò. «Come lo sai?»
    «Me l'ha detto Afrodite. Ti sei sbarazzato della tua tristezza e della tua paura, ma questo non cambia il fatto che Aristeo è innamorato di te. Sbarazzandoti delle tue sofferenze, non potrai certo evitargli le sue. Anzi, sicuramente non farai che portargliene altre».
    Lo sentì di nuovo ridere. Una risata amara che si udì appena. «Io sono Ares, il dio della guerra. Con me le persone soffrono. E' sempre stato così».
    «Non con Bistonis».
    Ci fu un altro silenzio. «Bistonis è tra quelle che hanno sofferto di più per causa mia, invece».
    Eros dapprima non capì cosa intendesse dire Ares. Solo dopo qualche attimo la consapevolezza lo invase, facendogli sgranare gli occhi. «Ares, quindi tu...!»
    «Ora basta» tagliò corto Ares, voltandosi verso di lui. Lo guardava truce, con un'ombra scura negli occhi che non portava neanche una briciola del solito fuoco che in genere lo invadeva. «L'Exaleiptron è chiuso da secoli, e Fobos e Deimos controllano che non subisca danni. Sembra che tu abbia colto solo una parte della storia raccontata da tua madre, perciò lascia che ti rinfreschi la memoria: per quale motivo è stato necessario racchiudere le mie emozioni lì dentro?»
    Perché stava soffrendo per Bistonis, si disse Eros. Nel pensarlo, però, si rese conto del dettaglio che aveva trascurato senza badarci.
    «Esatto» confermò Ares, che aveva notato il suo sguardo. «Apri quel contenitore, oppure distruggilo, e tutta la tristezza e la paura che avrei dovuto provare nel corso di secoli mi colpiranno in una volta sola. Se per un singolo lutto ho minacciato l'intera stirpe mortale, cosa pensi che potrei fare nel caso qualche stolto decidesse di riportare alla luce il contenuto dell'Exaleiptron?»
    Eros non rispose. Era come pietrificato. Soddisfatto, Ares gli diede le spalle e si allontanò.
    «Ora, se non ti spiace, devo andare a cercare mio figlio. Deve trasmettermi un messaggio da parte del mio unico, vero amore».
    Quelle parole suonarono quasi vuote ad Eros, che ben presto trovò a fargli compagnia solo l'eco cupa dei passi di Ares in lontananza.
  7. .
    Per questo primo d'aprile ho organizzato degli scherzi per un paio di role: due post fasulli in cui ho cercato di far sfociare nel demenziale l'andamento della storia.
    Vi suggerisco di provare un giorno o l'altro: io mi sono divertita un sacco e ne è decisamente valsa la pena.
    Ecco qui le due role incriminate e i rispettivi post/pesci d'aprile.

    Ares x Aristeo (Yaoi) - post

    Uriah x Laetitia (Hentai) - post
  8. .
    Non è scontato che ti piaccia lo yaoi finché non lo ammetti in pubblica piazza. u_ù alcune yaoiste sanno mimetizzarsi molto bene. E, sì, è difficile tornare indietro quando hai superato il punto di non ritorno e hai cominciato perfino a shippare il computer con la scrivania. xP posso capire perfettamente.
    Qui ce n'è per tutti i gusti e soprattutto... pullula di yaoisti, me compresa. Quindi non dubito che ti troverai a tuo agio. xD
    Insomma, benvenuta! ^O^
  9. .
    CITAZIONE (+Kira+ @ 7/1/2016, 18:05) 
    Non è solo una questione di "non si incontreranno mai", ma di gelosia morbosa.
    A me darebbe un fastidio immenso vedere il mio pg in mani altrui, non perchè mi appartenga eh, ma perchè tendiamo a metterci una parte di noi nei personaggi.
    Onestamente non mi darebbe fastidio se qualcuno si creasse Tom Felton, non solo perchè tendo a non ruolare mai persone reali perchè è una cosa che odio profondamente, ma anche perchè di solito scindo personaggio ed attore che lo interpreta, ma questa è una cosa personale, che a me desse fastidio o meno non potrei impedire a nessuno di crearlo, però non posso far mettere la foto di tom felton con sotto scritto Draco Malfoy, perchè come personaggio Draco è occupato.

    (Continuo a chiedermi se ciò che ho scritto ha senso solo per me oppure no).

    Capisco il senso di quello che scrivi, ma l'elemento "gelosia morbosa" si può estendere a qualsiasi cosa.
    Personalmente a me importa fino a un certo punto di un prestavolto. Al massimo può farmi rabbia quando qualcuno occupa un pv che volevo usare prima che possa farlo io (quante volte mi è capitato...!), e in quei casi sono decisamente gelosa, ma oltre a rodermi un po' la cosa non si estende più di tanto. Sono piuttosto molto più gelosa del contenuto della scheda: mi darebbe decisamente più fastidio se qualcuno si prendesse il contenuto di una mia scheda personaggio per ruolarci per conto proprio.
    Per tornare a uno dei miei primi esempi, quando ho scoperto che era stato creato un altro Ares (dio della guerra dell'antica Grecia) la cosa mi ha fatto storcere il naso, non lo nego, ma mi sono limitata a ignorare la cosa. Se poi un altro utente dovesse creare un personaggio con un attore tale e quale al pv che uso per Ares (Ren Kouen del manga "Magi: The Labyrinth of Magic") ma con storia diversa, personalmente non avrei davvero niente da obiettare, perché sarebbe un personaggio nettamente distinto dal mio.
    Insomma, se si parla di gelosia nei confronti del prestavolto, devo ammettere che non la capisco né la condivido: impedire a qualcuno di usare le immagini del proprio legittimo prestavolto come più preferisce "per gelosia" non mi pare giusto e non mi vengono in mente altre ragioni valide. Se invece si tratta di gelosia nei confronti del personaggio in senso stretto, ovvero personalità, bg, eccetera, mi sembra che stiamo andando fuori tema. ^^" Anche perché nel regolamento non dice nulla riguardo il divieto di usare determinate informazioni per la scheda, quindi qui diventa un problema più personale che non dovrebbe coinvolgere l'intero forum.
    Come ha detto Mizu, insomma. °3°

    CITAZIONE (+Kira+ @ 7/1/2016, 18:05) 
    Perchè crudelia è crudelia, qui torniamo alla risposta di prima, non puoi occupare crudelia, uomo o donna che sia, perchè è già occupato, ma puoi occupare l'attrice che la interpreta ma come attrice.

    Ecco, quello che ho tentato di spiegare prima (senza riuscirci) è che la Crudelia De Mon del film Disney e quella della serie tv OUAT sono due personaggi diversi l'uno dall'altro. 8/ Insomma, avrei potuto capire se si fosse trattato della Crudelia del film "Descendants", che è sempre un'opera Disney e quindi, volendo forzare un po' la cosa, si possono dire essere gli stessi personaggi, ma non mi pare sia questo il caso.
  10. .
    Oh! B) proviamo.

    Il protagonista ha incontrato qualche anno fa, per puro caso, la ragazza dei suoi sogni: l'ha vista di sfuggita in occasione di un'anteprima cinematografica con tanto di serata di gala mentre sfoggiava un bellissimo vestito rosso. Purtroppo però non ha mai avuto l'occasione di parlarle, di sapere chi sia o anche solo di arrivare a meno di un metro di distanza da lei: la incontra solo per quella sera e non la vede più per anni. Poi, improvvisamente, la ritrova una mattina, quando va a fare colazione in un bar appena inaugurato: la ragazza è la barista del locale e la riconosce immediatamente nel momento in cui lei gli sorride, porgendogli una brioche. A questo punto il nostro uomo non ha alcuna intenzione di lasciarsela sfuggire. L'unico problema è che lei non è affatto come se la aspettava: da affascinante dama in rosso, infatti, la ragazza si è trasformata in una barista che se ne va in giro in felpa e jeans a imprecare per ogni minima cosa. Sarà davvero possibile coronare un sogno d'amore del genere?

    SEPPELLIRE, SCATOLA, GUFO!

  11. .
    Bene, allora interrogatorio. Via!

    Quanti anni hai?
    Di che regione sei?
    Hai già giocato di ruolo in passato? Se sì, sempre via forum o in altri modi (via chat, gdr da tavolo, live...)?
    Studi o lavori? (o cerchi lavoro? o vivi di rendita?)
    Cosa ti piace fare nel tempo libero?
    Ti piace la musica? Se sì, che generi di musica ti piacciono?
    Ti piace leggere? Se sì, che genere di letture ti piacciono?
    Per caso sei anche un appassionato/a di manga/anime? Ce ne sapresti elencare alcuni di quelli che ti sono piaciuti di più?

    E per finire le domande principali che riguardano in senso più stretto questo forum:
    Come hai conosciuto il Secret Whispers? Visto che dici che stavi puntando il forum da un po', cosa ti ha spinto a presentarti e a decidere di partecipare, alla fine?
    Sicuramente hai letto le tre paroline nel banner: yaoi, yuri, hentai. Tra questi tre generi qual è quello che ti attrae di più? (se ti attraggono tutti e tre dillo tranquillamente, sicuramente non è vietato. °w°)
    La domanda preferita da certi loschi figuri che girano per il forum: ti consideri più seme o più uke?

    *sparisce in una nuvola di fumo*
  12. .
    .Titolo: Così disse il Fato
    .Autore: Seebaru
    .Fandom: Ares x Aristeo
    .Personaggi: Ares, Aristeo, Atena, Eris, Afrodite, altri
    .Avvertimenti: tematiche delicate
    .Rating: Rosso
    .Genere: Angst, Sentimentale, Flashback
    .Breve introduzione: il Pantheon Olimpico è pieno di divinità estremamente potenti e conosciute; divinità che con il loro potere hanno potuto compiere gesti di enorme importanza e che hanno segnato la Storia.
    Nulla, tuttavia, sfugge al Fato. Il suo potere è il più grande di tutti e nessun dio può sperare di opporvisi. E' giusto che le cose seguano il loro corso naturale... che si tratti di un corso piacevole o meno non ha importanza.
    Sarà il Fato, comunque, a portare Ares in una direzione che mai si sarebbe aspettato.
    .Note dell'Autrice: questa fiction svela un pezzetto del passato di Ares che si ricollega alla role - più precisamente a un momento non narrato che ha luogo tra il primo incontro di Ares e Aristeo ad Atene e il momento in cui Ares decide di andare alla casa del ragazzo in campagna. E' una storia che, lette le schede personaggio, si può comunque leggere senza bisogno di guardare la storia: Aristeo è quasi completamente assente e ci sono solo pochi riferimenti alla sua esistenza.
    Questa fiction è stata ideata per un vecchio contest del forum che risale nientemeno che a settembre dell'anno scorso: "Fato, Destino e Libero Arbitrio". Non ho mai partecipato a quel contest proprio perché l'idea che mi ha ispirato era troppo grande, esattamente come la mia pigrizia nello scrivere fanfiction. Questo è quindi il frutto di quasi un anno di lavoro: non è affatto perfetta e sento di dover migliorare ancora molto, ma mi sento abbastanza soddisfatta del risultato. Buona lettura.

    Così disse il Fato

    Era un giorno di un'estate di tanti anni addietro. Il sole arroventava le spiagge dorate della Tracia e faceva arrossare la pelle dei mortali del posto: faceva molto più caldo del solito.
    Al di là di quella calura insopportabile non sembrava esserci niente di particolare, eppure Ares si sarebbe ricordato di quel giorno in eterno.
    Se ne stava seduto sugli scogli, il dio, con i piedi che a intervalli regolari venivano lambiti dall'acqua del mare. Per uno come lui quello era un atteggiamento insolito: ci si sarebbe aspettati di vederlo impegnato ad attaccar brighe con qualche mortale o a caccia di chissà quale creatura pericolosa.
    Ebbene, lui sapeva che ciò che lo aspettava su quella spiaggia era di per sè una creatura mortale estremamente pericolosa. Una creatura che, in futuro, l'avrebbe fatto pentire di essersi trovato in quel luogo, quel giorno.
    «Aah...»
    La voce destò l'attenzione di Ares, che si sporse dalla propria posizione per vedere di chi poteva trattarsi. Quando ne individuò la fonte rimase immobile, in silenzio.
    Vicino al suo stesso scoglio si era seduta una fanciulla mortale. Era giovane, molto più delle donne che Ares era abituato a prendere come amanti occasionali: forse di un passo più vicina all'età adulta rispetto alla media delle bambine, ma un frutto ben lontano dall'essere maturo. Si era seduta in una posizione scomposta, con le gambe piegate e leggermente divaricate, le ginocchia che si toccavano e la schiena curva poggiata contro la roccia. I suoi capelli, acconciati in una crocchia poco curata, erano riccioli castani. Dalla sua posizione Ares solo questo: i capelli, la nuca, la veste che indossava. Il suo viso era rivolto verso il mare.
    La maggior parte degli incontri con i mortali avvenivano così. Non succedeva mai che un mortale riuscisse a evocare di proposito un dio e solo raramente accadeva che uno di loro riuscisse a raggiungere la loro dimora fuori dall'Olimpo. Per il resto, se una divinità e un essere umano venivano a contatto, succedeva solo perchè il Fato l'aveva deciso in anticipo per loro.
    Lento e silenzioso, Ares si spostò da sopra lo scoglio e scivolò a terra, immergendo i piedi nell'acqua. Da lì riusciva a vedere la giovane molto meglio di prima.
    Aveva un viso piccolo e rotondo, dall'aspetto semplice. Ad Ares non parve eccezionalmente bella, a vedersi: attorno al suo nasino da bimba c'era una nuvola di lentiggini e la sua fronte era molto spaziosa. Gli occhi, poi, avevano una malinconica sfumatura mista tra verde oliva e grigio scuro.
    «Che fai qui?» domandò il dio senza mezzi termini.
    La ragazzina sollevò lo sguardo su di lui, improvvisamente allarmata. Spostò lo sguardo prima sui suoi capelli rossi, poi sulla forma del viso e sulla barba, infine sull'armatura che aveva indosso. Poi concluse quella sua analisi con qualcosa che Ares non avrebbe mai più dimenticato.
    «Ssh» fece, incassando la testa nelle spalle e portando un dito davanti alle labbra. «Così mi trovano».
    Era chiaro non solo che nessuno le avesse mai insegnato come ci si comporta davanti a un adulto, ma anche e soprattutto che non lo avesse affatto riconosciuto come dio della guerra. Quel genere di cose capitava spesso, se si trattava di bambini.
    «Bada, marmocchia. Non sai con chi hai a che fare» l'avvertì in tono minaccioso.
    Lei si premette entrambe le mani sulla bocca, con gli occhi che sorridevano appena nella sua direzione. Doveva trovare il tutto molto divertente per essere così sfacciata davanti a un uomo sconosciuto.
    Accigliato, Ares si spostò lentamente verso il lato opposto del gruppo di scogli, in cerca di uno spiraglio per guardare verso il resto della spiaggia. Quando lo trovò, si sporse facendo attenzione a non farsi vedere.
    Dall'altra parte c'erano tre o quattro ragazzine. Indossavano tutte una veste fin troppo prematura per loro - a quell'età i loro corpicini non erano in grado neanche di riempirla come si deve - e si guardavano intorno come per cercare qualcuno.
    Il dio sentì un lieve sciabordio d'acqua accanto a sè, poi la ragazzina lo raggiunse e gli si fece accanto, sbirciando fuori. Ridacchiò sommessamente con una voce argentina. «Non mi troveranno mai».
    Sembrava una piccola volpe intenta a gongolare della sua stessa burla. Gli si era avvicinata di molto, con le ciocche di capelli mossi che gli solleticavano la pelle del braccio.
    «Melina? Melina, dove sei?» chiamò una ragazza, avvicinandosi di molto agli scogli. Poi si voltò verso le altre. «Quella bambina mi farà diventare matta. Andate a cercarla vicino al pozzo, io continuo qui!»
    La fanciulla accanto ad Ares si premette con forza le mani sulla bocca nel tentativo di non farsi sentire. Perché si stava nascondendo, poi? Comunque stessero le cose, Ares era sempre più tentato di spingerla lui stesso più in là, oltre gli scogli, per farla uscire allo scoperto.
    «Perché ti nascondi, piccola volpe?» le chiese lui.
    Lei allontanò le mani dalla bocca, sulle labbra solo un residuo della sua risata. «Devono punirmi perché ho nascosto la spada di mio padre».
    Se mai uno dei suoi figli mezzosangue avesse mai osato prendergli le armi per nascondergliele, Ares non si sarebbe certo limitato a mandare i suoi servi per punirlo: l'avrebbe più volentieri appeso a un albero per i piedi e si sarebbe costruito un tamburo con la sua pelle. Tale era la considerazione del dio nei confronti dei suoi figli.
    Con la massima disinvoltura, allora, Ares spinse la ragazzina più in là, dove gli scogli lasciavano il posto a un breve tratto di spiaggia. «Se è così, te lo meriti. Chi credi di essere, per metterti a giocare con le armi di tuo padre?»
    Di colpo la piccola si allarmò e lo guardò implorante. «No! Ti prego, non tradirmi!» sussurrò. «Sii gentile!»
    «Melina?» chiamò ancora la giovane, che per il momento non aveva visto nessuno dei due. Stava per fare il giro degli scogli, però.
    «Che ti serva da lezione. Stai chiedendo gentilezze al dio sbagliato, piccola volpe» replicò lui con un sorrisetto. Ora la guardava con attenzione: quell'espressione persa e sottomessa gli faceva venire un pizzicorino in fondo allo stomaco. Era il genere di prurito che gli faceva venire voglia di trattar male qualcuno ancora di più.
    Lei lo guardò spaesata. «Eh...?»
    Fu allora che lui la spinse via, verso la spiaggia. La ragazzina barcollò e cadde all'indietro sulla sabbia soffice, appena oltre gli scogli, tenendo lo sguardo smarrito fisso su di lui.
    «Melina!» esclamò la ragazza più grande, raggiungendola di corsa. La prese per un braccio e la tirò su. «Piccola peste, ti ho cercata ovunque. Vieni con me, che ora facciamo i conti!»
    C'era un che di divertente e di soddisfacente nel vedere quella piccoletta che veniva trascinata via dalla ragazza più grande: un piacere che Ares, sul momento, associò a una sorta di piccola vendetta personale per essere stato trattato in maniera così irrispettosa poco prima. Eppure il suo sguardo si stava fissando su altro: quei capelli mossi, le lentiggini che macchiavano quella pelle chiara e gli occhi che ancora lo fissavano, ma stavolta ricolmi di tristezza e delusione.

    «Una bambina?» ripetè Afrodite in tono annoiato.
    La dea, in quel momento, era appoggiata con la schiena contro la testa del letto, le gambe ripiegate verso l'alto, intenta a giocherellare con una delle sue setose ciocche di capelli - questo dopo aver tentato di arricciare su un dito i capelli di Ares ed essere stata ripagata con uno schiaffo sulla mano.
    La piega delle sue sopracciglia si era inclinata appena, a sottolineare quanto quel discorso non le andasse molto a genio. Afrodite dopotutto era la dea dell'amore lussurioso: di fanciulle troppo giovani s'interessava ben poco.
    Il dio della guerra le aveva appena raccontato il suo incontro con quella piccola mortale. Era convinto che avrebbe smesso di badarvi molto presto, invece il giorno seguente era andato a cercarla, scoprendo che era stata chiusa in casa e lì sarebbe rimasta per un'intera luna.
    «Ti comporti come un bambino, Ares. Non che la cosa mi dispiaccia» lo prese in giro Afrodite, accennando un sorriso ilare. «Scommetto che l'hai fatta scoprire solo per vedere il suo faccino abbattuto, esattamente come fanno i bambini mortali. Questo genere di scherzi è proprio degno di te».
    Disteso prono sul letto, con il braccio sinistro appoggiato sul grembo della dea, Ares voltò appena il capo verso di lei e la guardò torvo. «Nessuno ha chiesto il tuo parere».
    «E allora perchè me l'hai raccontato?» replicò a tono lei, accentuando il proprio sorriso. «Ad ogni modo, pare che tu riesca ancora a divertirti con un mortale senza doverlo uccidere. Buon per te. Per quanto riguarda la piccola volpe, sono certa che andrà a finire come con tutte le altre».
    Lui arricciò il naso, girandosi su un fianco e sollevando il braccio da sopra Afrodite. «E' una marmocchia!»
    «Crescerà nel giro di pochi anni, come tutti i mortali». Ora la dea aveva diviso la ciocca in tre e la stava intrecciando. «Mi conosci. Non sarà certo una donna mortale, Ares, a far ingelosire me. Ce ne sono a migliaia tutte uguali, che nascono e muoiono alla velocità delle folgori di nostro padre Zeus. Se la vuoi, non sarà certo la dea dell'amore a fermarti».
    Il dio si sollevò a sedere e fece un respiro profondo. Ogni volta che qualcuno dell'Olimpo gli diceva cose del genere - a cosa fosse destinato, cosa era già stato deciso, eccetera - lui sentiva la forte tentazione di fare di tutto per andarvi contro. Ma lo sapevano tutti, lui compreso, che andare contro il volere del Fato non era cosa che gli dei potessero fare. Era un dio invisibile che viveva nelle predizioni degli oracoli e che si lasciava modellare solo dalle dita ossute delle Moire: andargli contro significava solo fallire inesorabilmente, perchè era come mettersi contro l'equilibrio di tutte le cose.
    «Me ne vado» disse Ares in tono secco. Raggiunse il bordo del letto e si alzò.
    Non si voltò neanche una volta verso Afrodite, neanche quando lei gli disse «torna qui a giocare quando vuoi» in tono suadente.

    Passarono gli anni e Ares incontrò Melina una seconda volta in uno dei tanti boschi disseminati per la Tracia, in piena primavera.
    Era insieme ad altre cinque giovani donne - ad occhio doveva avere sedici, forse diciassette anni. Erano sedute in cerchio nei pressi di un ruscello e passavano il tempo con spensieratezza: intrecciavano piccoli fiori per farne collane e bracciali, si schizzavano tra di loro con qualche goccia d'acqua cristallina. Tra loro Melina era intenta ad acconciare i capelli di un'altra ragazza intrecciandovi dei fiori, mentre l'altra canticchiava con una voce da usignolo.
    Ares si era fermato appena in tempo, perchè a prima vista le aveva prese per ninfe dei boschi. Avevano il loro stesso modo di fare spensierato e giocoso, sufficiente per fare le impertinenti con gli dei ma non abbastanza da essere del tutto prive di senno. Erano anche dotate della stessa bellezza, poco ma sicuro.
    Melina era cambiata rispetto all'infanzia, ma era ancora ben riconoscibile. Le efelidi non erano sparite dal suo viso e aveva ancora quei suoi riccioli castani, che adesso erano lasciati sciolti sulle spalle ed erano decorati con parecchie campanule. Aveva l'aria serena, eppure nel suo sorriso il dio ritrovò l'ombra di furbizia che la faceva tanto assomigliare a una volpe dispettosa.
    La più bella del gruppo, senza ombra di dubbio, era la ragazza che se ne stava davanti a Melina a farsi acconciare i capelli. Il suo nasino era perfetto e aveva dei bei capelli biondi e lisci che, con quel vestito bianco e i fiori, la facevano assomigliare più che mai a una driade. La sua carnagione era perfetta, e in quanto a forme... beh, nessuna delle presenti - men che meno Melina, a ben vedere - poteva competere con lei.
    Nascosto dietro una grossa quercia, Ares rimase a guardarle di nascosto per poco. Era una bella giornata, ma soprattutto era primavera, e a dispetto delle centinaia di anni di esistenza che portava sulle proprie spalle il dio della guerra aveva un sangue facile a scaldarsi, specie in presenza di fanciulle mortali giovani e belle come quelle che aveva davanti. Quel giorno indossava una tunica proprio perchè in armatura sarebbe stato decisamente più scomodo.
    Forse aveva sottovalutato il loro udito fino, però. Gli bastò fare un passo avanti perchè una di loro si accorgesse di lui e strillasse: «un uomo!»
    Per le giovani donne della Tracia "uomo" non doveva essere sinonimo di "pericolo", eppure tutte le ragazze si allarmarono e, in preda ai gridolini dal tono tra il divertito e lo spaventato, si alzarono in piedi e presero a correre in direzioni diverse.
    Un dio come Ares, però, era abituato a certe situazioni e non si lasciò cogliere impreparato. Fu abbastanza veloce da puntare una di loro e da mettersi a correre dietro di lei, schivando gli alberi che lo circondavano con sveltezza.
    Doveva ammettere che aveva un piede veloce, quella, ma non le sarebbe stato sufficiente per sfuggirgli. Il vociare delle altre ragazze si era già allontanato di molto quando la raggiunse, afferrandola per il braccio.
    La ragazza si voltò verso di lui... e a quel punto i due si guardarono con tanto d'occhi.
    «Ma... ma sei tu!» esclamò Melina senza parole.
    Lui era stupito quanto la giovane. Era convinto di essere andato dietro alla bionda, ma inconsciamente aveva seguito proprio lei. Aveva sprecato una buona occasione, rinunciando a una rara bellezza mortale in favore di un'altra piuttosto comune.
    Le lasciò il braccio. «Ci rivediamo, piccola volpe».
    La fanciulla portò il braccio al petto, massaggiandoselo con l'altra mano, ma non tentò di scappare. Il suo viso, piuttosto, si corrucciò. Si avvicinò a lui e, lasciandolo basito, gli tirò un pugno in pieno petto.
    «Ahi...» si lamentò Melina subito dopo, massaggiandosi la mano. «Ma di che sei fatto, di bronzo?»
    Ancora una volta quello scricciolo aveva la faccia tosta di trattarlo male. Ares si mise a braccia conserte. «Tanto quanto lo è la tua testa. Vedo che non hai ancora imparato a comportarti, da quando eri più piccola» ribattè aspro. «Per che cos'era, quello?»
    «E me lo chiedi pure?!» fece l'altra. Ora lo stava prendendo a calci e a pugni in parti diverse del corpo, pur senza smuoverlo di un centimetro. Certo che le donne mortali erano proprio deboli, anche se quelle della Tracia si riconoscevano sempre per l'audacia, la faccia tosta e l'aggressività. «Per colpa tua, quella volta ho trascorso il resto dell'estate dentro casa!» sbottò. Smise di colpirlo e lo guardò in faccia, furente: aveva i riccoli scomposti, adesso, e parte delle campanule era andata persa a terra. «Spiegami perché lo hai fatto!»
    Lui si strinse nelle spalle. «Speravo che così avresti messo la testa a posto e ci avresti pensato due volte prima di nascondere le armi a tuo padre, ma pare che non abbia funzionato. Sei la stessa piccola volpe che ho incontrato allora».
    «Che cosa?! Brutto...!» esclamò Melina esasperata, facendo per colpirlo ancora con un pugno.
    Stavolta, però, lui le bloccò il polso con una mano, tirando a sè il suo braccio. Sulle labbra aveva un sorriso leggero. Era molto combattiva, quella ragazza: molto più di quanto si era aspettato. In più ora la sua rabbia lo irraggiava a colpo diretto, rinvigorendolo come un bagno di sole.
    «Speri di fare qualche danno a un dio con le tue zampette, piccola volpe?» la schernì, mentre il suo sorriso si allargava.
    Lei parve improvvisamente a disagio. Le sue guance si tinsero di rosa e gli occhi grigioverdi si distolsero dal viso di lui. «Devo pur vendicarmi per quello che ho subito. Lasciami andare. E io mi chiamo Melina... basta con questo "piccola volpe"!»
    Lui abbassò la mano, ma non la lasciò. Si avvicinò ancora di più a lei, piuttosto, guardandola dall'alto: un'altra cosa in lei che non era cambiata granchè era l'altezza, visto che continuava ad essere bassina. «Perché? Io credo che ti si addica. Sei una volpe dispettosa che se ne infischia delle regole e che pensa solo a divertirsi. E' la seconda volta che ti sorprendo a giocare».
    Le tremavano le ciglia. Solo grazie a questo piccolo dettaglio Ares si rese conto di essersi avvicinato moltissimo a lei. In quanto a Melina, lei pareva essersi pietrificata.
    Con uno sbuffo divertito, Ares le lasciò il polso e le appoggiò un braccio attorno alle spalle, cominciando a camminare.
    «Hai perso la lingua? Mi ero convinto che tu avessi sempre la risposta pronta» commentò.
    Lei rispose solo dopo un po'. «E' solo la seconda volta che mi vedi. Non mi conosci abbastanza per poter dire come sono fatta». Teneva lo sguardo basso, scontenta per qualcosa che, purtroppo, Ares non avrebbe mai capito del tutto.
    Trascorse un breve silenzio che Ares impiegò a guardarla. No, decisamente non era bella come la biondina di prima. Però non sarebbe stato male come divertimento passeggero. Prima che riuscisse a formulare altri pensieri, però, fu Melina a rompere il silenzio.
    «Sei davvero un dio?» chiese, tornando finalmente a sollevare gli occhi verso di lui. Pareva ancora un po' titubante: una vera delusione per lui, che preferiva di gran lunga le donne dal carattere forte. Un po' come Afrodite, insomma.
    «Sì» rispose Ares sbrigativo. «Gli dei, come i mortali, mi chiamano Ares».
    La vide irrigidirsi, cosa che gli procurò una fitta di soddisfazione. «Il dio della guerra».
    «Vedo che non sei un'ignorante come credevo» commentò lui. Portò un dito sotto il suo mento per farle inclinare la testa e poterla guardare in faccia. «Sorpresa?»
    Gli occhi di Melina si distolsero all'istante dai suoi. Quel comportamento sottomesso se lo portava ancora dietro, la ragazza, nonostante tutto. «Sì. Perchè hai deciso di incontrare me?»
    Lui scrollò le spalle con indifferenza, lasciandole il viso. «E' stato un caso. In realtà stavo seguendo la biondina» dichiarò con fare sostenuto, spostando lo sguardo sugli alberi che li circondavano come se fossero più interessanti.
    L'espressione di Melina passò rapidamente dallo stupefatto al frustrato. «Ma come, Eumelia?!»
    «Ah, è così che si chiama?» lui si fece interessato. «Buono a sapersi».
    «No no no! Eumelia no!» protestò invece Melina, scuotendo la testa con vigore e perdendo così un grosso numero di fiori dai propri capelli. «E' la mia amica più bella e infatti ci sono tantissimi giovani del mio villaggio che vorrebbero averla in sposa. Ti ci vuoi mettere anche tu?!»
    Le mortali erano uno spasso. Il dio le lanciò un'occhiata incuriosita. «Perché non dovrei? E' molto più bella di te. E poi una mortale vale l'altra. Siete tutte uguali, voi».
    «Non è vero!» protestò lei, stizzita. Era uno spasso vederla così, per Ares: i suoi capelli parevano gonfiarsi di pari passo con la sua rabbia e le campanule finivano di qua e di là a ogni suo movimento. «Lei è lei e io sono io. Lei è bella, ma anche per questo è un tipo vanitoso. Non le piace correre e neanche giocare con le altre: l'unica cosa che sa fare è farsi piacente per gli uomini. Io, invece, sono capace di...»
    «Ehi» la interruppe Ares, chinandosi appena verso di lei per guardarla in faccia. «E tu cosa c'entri in questo discorso?»
    La ragazza ammutolì, diventando rossa in viso solo un momento più tardi. «E-ecco... di-dicevo per dire».
    «Mhm» fece lui. «Sappi comunque che non sono venuto apposta per cercare te».
    Melina non rispose subito. Per un lungo istante si fissò i piedi, come riflettendo su qualcosa.
    «Allora è destino».
    Quel commento non lo sorprese più di tanto. «A voi donne piace davvero tanto, la parola "destino"».
    Non riusciva a vederle bene il viso, ora che guardava di nuovo in basso, ma dal suono della sua voce capì che stava lentamente tornando a sorridere. «Pensaci. Ci siamo incontrati per caso cinque anni fa, e adesso ci siamo incontrati di nuovo senza che ci stessimo cercando. E' il destino».
    Ancora quella parola, ancora quell'atteggiamento. Parlare di destino e di fato inevitabile era una cosa che ad Ares non sarebbe mai piaciuta. Tra gli dei vigeva la regola di non provare a contrastare il destino, anche perché non ne avrebbero ricavato che danni. Più Melina parlava, però, più sentiva il bisogno di tapparle la bocca una volta per tutte.
    «Stammi a sentire, piccola...!» cominciò, per ammutolire un attimo più tardi. Distolse lo sguardo dalla ragazza senza aggiungere altro, scorgendo qualcosa dietro un gruppo di alberi più in là.
    Melina lo guardava senza capire, probabilmente ancora con la testa immersa nelle sue fantasie. «Cosa c'è?»
    Lui scosse la testa. «Niente che t'interessi. Me ne vado».
    Erano i suoi figli, Fobos e Deimos, che lo guardavano da lontano. Indossavano tutti e due l'armatura, segno che erano pronti a muoversi verso qualcuno. In particolare Fobos doveva aver notato la giovane donna accanto a suo padre - un motivo in più per muoversi, dato che lui era la paura fatta divinità.
    Melina gli afferrò un lembo della tunica, con espressione dispiaciuta. «Ma come, così presto...?»
    Ares tornò a guardarla. Questa sì che era da ridere! Se non fosse stato impossibile, avrebbe quasi creduto che quello scricciolo voleva che restasse. Davanti al suo faccino preoccupato fece un sorriso di scherno.
    «Non temere, piccola volpe. Tornerò presto a popolare i tuoi peggiori incubi».
    Deimos, più in là, ridacchiò. Quei due dovevano essersi resi del tutto invisibili, perché la mortale non diede segno di essersi accorta di loro. Continuava a guardare solo Ares, con quella sua espressione triste e delusa con cui si erano già congedati la prima volta.
    Non che ad Ares importasse granché. Se la piccola volpe aveva dei problemi, se li sarebbe risolti da sola.
    «Tornatene dalle altre. Fai anche sapere alla tua amica che potrei venirla a trovare molto presto» soggiunse in tono impertinente, accompagnando la frase con un cenno di saluto della mano.
    «Ma figurati se lo faccio!» esclamò lei stizzita, voltandosi dall'altra parte con fare offeso.
    Quando tornò a guardare nella sua direzione, però, Ares era già andato via.

    «Siamo arrivati in un momento delicato?»
    Ares scosse la testa in risposta alla domanda di Fobos, ma non diede altre spiegazioni a riguardo. Sicuramente non erano affari di nessuno con chi il dio della guerra trascorresse il suo tempo - nemmeno dei suoi figli.
    Deimos, alla guida del carro, fece decelerare i cavalli. «Siamo quasi arrivati, il posto è questo».
    C'era un valido motivo, secondo Ares, per piantare in asso la piccola volpe. Deimos e Fobos non lo raggiungevano mai se non per questioni importanti o per una possibilità di menar le mani; in quel caso si trattava proprio di quest'ultima cosa e il dio non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire l'occasione.
    In quel caso si trattava di una faida tra due famiglie: quella di Proteo che viveva a valle di una montagna e quella di Licaone che abitava più a sud, nei pressi di un torrente dalle acque cristalline. Era una di quelle faide che duravano da così tanto tempo che nessuno ricordava più il motivo per cui erano scoppiate: si era ridotto a uno scontro all'ultimo sangue mandato avanti per semplice orgoglio e desiderio di rivalsa.
    «Licaone ha contratto una brutta malattia. Eris ha detto che poteva essere divertente prendere il suo aspetto e spaventare a morte la famiglia di Proteo» disse Fobos.
    Ares sorrise tra sé: se era un'idea di Eris, ci sarebbe stato di che divertirsi. Tra tutte le divinità lei era quella che meglio conosceva i suoi gusti e che riusciva a trovargli i divertimenti migliori. Se solo non fosse stata tanto appiccicosa nei suoi confronti, sarebbero potuti andare ancora più d'accordo: i loro gusti erano molto simili. Un altro difetto della dea, però, era che non ci si poteva mai fidare completamente dei suoi suggerimenti; accadeva spesso che le sue scelte si orientassero più sulla soddisfazione personale di creare scompiglio, anche a costo di mettere gli altri dei l'uno contro l'altro. Sapevano tutti fin troppo bene come fosse scoppiata la guerra di Troia, dopotutto; c'era chi ancora sospettava che Eris avesse architettato ogni cosa a puntino al solo fine di far nascere quei continui spargimenti di sangue durati per ben dieci anni. Non che ad Ares la cosa fosse dispiaciuta, ovviamente.
    Deimos fermò il carro e scesero tutti e tre. Era il tramonto: si scorgevano già la stella della sera e una sottile falce di luna calante.
    «Fobos, vai a nascondere Licaone nella nebbia, poi prendi il posto di uno dei suoi figli e torna da me. Deimos, tu nascondi il carro, poi fingiti uno dei servi di Proteo e comunica a lui e ai suoi figli che Licaone è qui per sfidarlo».
    Andò tutto esattamente come previsto. Deimos nascose il carro nella nebbia, poi andò a svegliare Proteo e i suoi familiari per avvertirli dello scontro imminente. Un po' per la sorpresa di sapere che Licaone era in piena salute e pronto a combattere, un po' per l'influenza di Deimos dio del terrore della guerra, gli uomini si prepararono subito e si prepararono già al peggio. A casa di Licaone, invece, il pater familias era immerso in un sonno agitato quando Fobos, dio della paura, lo nascose agli occhi dei mortali insieme a uno dei suoi figli più giovani, per poi prendere l'aspetto di quest'ultimo. Quando poi Ares fece la sua comparsa in casa, già armato e pronto ad uscire, gli uomini si mostrarono più felici che mai nel vedere Licaone nel pieno delle forze e preparato allo scontro.
    La lotta vera e propria avvenne a metà strada tra le due abitazioni, in mezzo a un campo spoglio di qualsiasi albero; la luna calante, propizia per una battaglia sanguinosa, mise un po' di coraggio nei cuori di tutti i mortali presenti. Sfortunatamente per loro, Ares e i suoi figli sapevano anche troppo bene che quella notte sarebbe trascorsa in una maniera che nessuno di loro si poteva aspettare.
    Pirro, con indosso l'armatura e la pelle di un leone, si fece avanti. «L'ultima volta che ho avuto notizie di te, avevi già un piede immerso nello Stige, Licaone. E' il desiderio di sconfitta a reggerti ancora in piedi?»
    Ares, con le sembianze di Licaone, faticò parecchio per non scoppiargli a ridere in faccia. «Che il mio spirito possa essere dilaniato dalle zanne di Cerbero, se dovessi morire prima di averla vinta contro di te. Non sperare di avere scampo, Proteo!»
    «Sia come vuoi» ribatté l'uomo. «Fatti avanti, e che sia una cosa breve. Il sole è quasi calato del tutto».
    Ad Ares parve di sentire Fobos ridacchiare, più indietro. Un attimo dopo però si era già slanciato in avanti, con la spada levata per colpire il proprio avversario.
    Bastò il tempo per far calare il sole di tre gradi: alla fine Ares aveva piantato la spada nel collo di Proteo fino all'elsa, forandogli la gola. Forse l'orrore dipinto sul volto dei figli del nemico gli piacque ancor più delle urla vittoriose dei familiari di Licaone, che già consideravano finito lo scontro.
    «Non è finita!» urlò il maggiore dei figli di Proteo, sul volto una smorfia di rabbia mista a dolore.
    «No, non lo è» disse Ares in tono minaccioso, guardandolo con un'espressione ben poco rassicurante. «Figli miei, impugnate le armi!» urlò poi, rivolto ai mortali dietro di lui e a Fobos. «Uccidiamoli tutti e che nessuno sopravviva!»
    Quella che avvenne quella notte fu una vera carneficina, tra le più brutali che si fossero mai viste nelle selvagge terre di Tracia. Ares colpiva e tirava stoccate con il preciso scopo di uccidere e mutilare; era sempre più sporco di sangue, ma più era sporco più si esaltava. Le urla di dolore della famiglia di Proteo erano come musica per le sue orecchie. La sua sola presenza bastava a rendere anche i mortali presenti molto più brutali e assetati di sangue.
    Alla fine riuscirono davvero ad ucciderli tutti; dei figli di Licaone erano caduti solo due uomini. Forse solo in quel momento i mortali, nel vedere che il loro genitore non mostrava alcun dispiacere eccessivo per quelle morti, cominciarono a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava: Licaone, per la sua età e per le sue condizioni di salute, si stava mostrando davvero troppo vitale.
    «Abbiamo concluso, padre?» domandò Fobos. «Abbiamo ucciso sia Proteo che i suoi figli più forti».
    Le braccia del dio erano coperte di sangue e ne erano iniettati anche i suoi occhi. Davanti a quella distesa di cadaveri, tra figli, nipoti e cugini di Proteo, c'erano i parenti di Licaone che avevano l'aria di essere impazziti mentre tramavano di dare i loro corpi in pasto ai cani randagi. Il senno di un dio, a quel punto, era solito suggerirgli di allontanarsi da quel luogo e di non intromettersi oltre nelle questioni dei mortali.
    La sete di sangue del dio della violenza, tuttavia, quella notte non si era ancora placata. Trascinato dagli eventi e lasciatosi coinvolgere da quella faida brutale, Ares desiderò colpire ancora, uccidere ancora e a qualsiasi costo.
    Fu questo ciò che lo portò a fare una scelta. Una scelta di cui, ahimè, si sarebbe pentito in futuro.
    «Mi avete sentito: ho detto "che nessuno sopravviva"» ripeté Ares con voce terribilmente gelida. «Alzatevi e andiamo. Si va a casa di Proteo».

    Le urla che squarciarono quella notte serena fecero rabbrividire le costellazioni e l'intera Via Lattea. Si erano avvicinati al complesso di abitazioni che costituiva la casa dell'intera famiglia di Proteo di soppiatto, poi si erano lanciati all'attacco.
    In casa di Proteo non erano rimasti che vecchi inermi, donne e fanciulli. Le loro grida terrorizzate nel vedersi il nemico in casa e l'orrore nel venire a sapere della morte dei loro fratelli, padri o mariti non bastarono a fermare la furia della famiglia di Licaone: imbrattarono le abitazioni di sangue e andarono a uccidere innocenti fin dentro i loro letti. Non venne mostrata alcuna pietà neanche per i bambini, né per un paio di giovani donne in dolce attesa. Era una brutalità comune tra le genti di Tracia, forse, ma Ares contribuì in buona parte a portarla ai limiti della pazzia.
    Poi calò il silenzio: un silenzio innaturale che sapeva di morte. Il genere di calma piatta che seguiva tutti gli scontri, lo stesso che Ares non riusciva mai ad apprezzare. Era sua sorella gemella Eris a gioire di quelle sensazioni di devastazione e di assenza di vita; per lui l'emozione moriva insieme alla furia dello scontro, lasciando spazio a un vuoto fastidioso ed incolmabile.
    Deimos, che era rimasto tutto il tempo in casa di Proteo e si era unito alla battaglia, raggiunse suo padre e si guardò intorno. «Non è rimasto più nessuno» disse.
    Ares lanciò uno sguardo alla propria spada, ormai completamente rossa, poi si rivolse ai parenti di Licaone. «Abbiamo finito. Andiamo a casa».
    Gli uomini si avviarono verso l'esterno ridacchiando sommessamente. Nessuno urlava più di giubilo o esclamava la propria vittoria: era rimasta solo la soddisfazione di vedere la stirpe nemica in un lago di sangue. Era esattamente ciò che Ares amava vedere nei mortali: pura gioia per il massacro.
    «Mi recherò a prendere il carro» mormorò Deimos, uscendo anche lui. Fobos fece per seguirlo, ma Ares gli appoggiò una mano sulla spalla.
    «Aspetta. Vieni con me. Vediamo se c'è ancora qualcuno».
    I loro piedi emettevano sinistri suoni liquidi mentre camminavano, pregni di sangue com'erano sia essi che il pavimento. Nessuno dei due dei aveva la guardia alta: si aggirarono per la casa in silenzio e con occhi ben aperti per non farsi sfuggire niente, ma non si sentivano minacciati da nulla.
    Nel salone dei banchetti non c'erano che schiavi morti e cani che, avvertendo la presenza del dio di cui erano simbolo, non osavano uscire allo scoperto. Le camere da letto avevano le coltri stracciate e pregne del sangue di vecchi e giovani donne. Proseguirono verso la stanza degli schiavi, che era uno spettacolo di arti e interiora in una brodaglia cremisi. Sembrava davvero che non fosse rimasto nessuno.
    Non restava che la cucina, che prima avevano visto essere completamente vuota.
    «Sono morti tutti» disse Fobos.
    «Ssh» fece Ares, portandosi un dito alle labbra. Poi gli fece segno di entrare. «Fai attenzione».
    L'attenzione di cui parlava il dio della guerra non era tanto per i pericoli, quanto per la possibilità di Fobos di percepire la paura altrui, in quanto lui stesso dio della paura. La divinità fece un passo nella stanza, guardandosi attorno in silenzio e facendo scorrere lo sguardo lungo le pareti. Gli occhi color ghiaccio, poi, si soffermarono su un mobile basso che doveva fungere da credenza. Puntò il dito verso di esso.
    Ares fece un altro passo e tese l'orecchio. Era appena percettibile, ma si sentiva un respiro leggero e soffocato, scosso dai fremiti e da qualche singhiozzo.
    Fobos si avvicinò al mobile e lo aprì, poi tuffò una mano all'interno per tirarne fuori qualcosa. Quando si allontanò teneva le dita ben strette attorno al braccio di un ragazzino.
    Era poco più che un bambino: forse aveva visto una decina di primavere come quella. Aveva i capelli biondi e gli occhi scuri, dimostrando una bellezza non comune per essere un mortale.
    Ad Ares venne in mente che, quando aveva incontrato per la prima volta Melina, la piccola volpe doveva aver avuto la stessa età di quel fanciullo. In quanto a bellezza, però, quello scricciolo da grande avrebbe dovuto avere un viso bello tanto quanto quello di Eumelia, la biondina di cui Melina era gelosa fin nel midollo.
    Quei pensieri, però, non avevano niente a che fare con ciò che il dio si stava preparando a fare al momento. «Tienilo fermo» ordinò a Fobos secco.
    Suo figlio lo guardò esitante. «Vuoi ucciderlo?»
    «La sua intera famiglia è morta, manca solo lui» replicò Ares con semplicità, come se tanto bastasse per togliere la vita a qualcuno.
    «No! No! Aiuto!» strepitò il fanciullo terrorizzato, mentre Fobos gli afferrava l'altro polso e gli si piazzava alle spalle, esponendogli il piccolo petto davanti agli occhi rossi del dio della guerra.
    Ares scosse la testa. Se c'era qualcosa che lo infastidiva di più dei mocciosi erano quelli che piagnucolavano. Levò la sua spada, puntandola dritta verso il suo petto. «Fai silenzio!» ruggì, calando la lama.
    Si sentì un assordante clangore metallico. La spada era impattata contro qualcosa di duro che si trovava tra essa e il ragazzo, ma a occhio nudo non si vedeva niente del genere: alla luce delle torce accese quello spazio era vuoto. Continuando pure a fare forza, però, Ares non riusciva a muovere l'arma di un centimetro.
    «Ma che cosa...?»
    Un attimo dopo avvertì un dolore lancinante al ventre. Ares si piegò in due, stringendo convulsamente la spada, per poi cadere in ginocchio. Qualcosa di grosso, appuntito e metallico gli aveva appena trapassato l'addome. L'icore, il sangue divino, cominciò da subito a scorrergli copiosamente lungo le gambe. Fu tutto così improvviso e doloroso che il dio, persa la concentrazione, perse l'aspetto di Licaone e riassunse le sue sembianze per aggirarsi tra i mortali.
    «Padre!» esclamò Fobos allarmato, suo malgrado lasciando la presa sul fanciullo. Quello non si lasciò sfuggire l'occasione e corse via, uscendo dalla porta della stanza che dava verso l'esterno.
    Premendosi una mano contro l'addome per fermare l'uscita del sangue, Ares sollevò lo sguardo verso l'alto, furioso. Conosceva solo una persona che avrebbe potuto fermarlo con uno scudo invisibile e ferirlo gravemente con tanta facilità. «Atena...!» ringhiò.
    La dea della giustizia si palesò davanti agli occhi dei due dei in un lampo di luce. Indossava l'armatura completa, con tanto di elmo ed egida, la lancia in mano con la punta sporca dell'icore di Ares. Non sorrideva: lei non era il tipo da gioire delle sofferenze altrui, al contrario del fratellastro.
    «Questa notte di sangue è finita, Ares. Ritirati sull'Olimpo con i tuoi figli e vai a farti medicare da Peone, prima che ti colpisca un'altra volta» intimò con tono imperioso. «Non farmi ripetere. Oggi hai superato ogni limite».
    Ancora piegato dal dolore e con l'icore che gli bagnava la pelle già sporca di sangue mortale, Ares riuscì ad abbozzare un sorriso divertito. «Limite? Sono solo mortali... ce ne sono a frotte».
    Alla luce dorata e tremolante delle lanterne, l'espressione di Atena si fece triste. «Ognuno di essi ha un destino da compiere e tu ti sei intromesso. Hai ucciso degli innocenti, Ares...»
    «Mai più innocenti degli altri mortali che ho ucciso in vita mia».
    «Anche quei bambini e quelle giovani madri? La tua mancanza di scrupoli ti ha annebbiato la mente. Fratello, tu puoi essere molto più che uno sterminatore di uomini...» insisté la dea.
    «Non chiamarmi fratello!» sbottò lui con rabbia.
    Seppur a fatica, riuscì a mettersi in piedi. Puntò la spada verso di lei, guardandola con odio.
    «Stai a vedere. Prenderò quel fanciullo... e lo torturerò finché non avrà più voce per invocare te o qualunque altro dio. Lo farò davanti ai tuoi occhi». Sputò a terra. «E non si dica più né in cielo, né in terra, né in mare o nell'Ade che la guerra si fa degli scrupoli nel togliere la vita a qualcuno».
    Delusa e amareggiata da quella risposta, Atena scosse la testa. «Parlare con te è sempre inutile, vedo. Sappi comunque che non ti permetterò di uccidere quel giovane». Il suo sguardo si fece freddo e penetrante mentre gli puntava contro la propria lancia. «Mi manda Zeus a proteggere suo figlio Diocle».
    Ares la guardò scioccato. Abbassò appena lo sguardo, mentre la sua mano calava lentamente lungo il suo fianco. Provò a pensare all'aspetto di quel fanciullo, in cerca di un qualche indizio che confermasse quella tesi. «Quello... quello è un figlio di Zeus?» ripeté atono.
    La dea annuì grave. «Concepito con Crisante, la primogenita di Proteo. Non è destino che muoia stanotte». La sua lancia restava dov'era. «Stai perdendo molto icore. Se esiterai ancora dovrai passare giorni e giorni a farti curare da Peone. Te lo ripeto: torna all'Olimpo. Rinuncia alla vita del semidio figlio di Zeus, Ares».
    Dolorante e con la vista che cominciava ad annebbiarsi, Ares fece cenno a Fobos di avvicinarsi. «Non finisce qui, Atena» sibilò.
    «Ti pentirai di aver compiuto questa strage, Ares. Questa più di qualunque altra» replicò lei fredda.

    Si era divertito, quella notte, ma il tutto si era concluso in due brutte ferite: una fisica che Peone avrebbe davvero impiegato giorni a curare e un'altra che aveva ridotto molto male l'orgoglio di Ares. Le sconfitte che gli infliggeva Atena erano le più brucianti: la dea riusciva non solo a vincerlo dal punto di vista tattico, sfruttando sotterfugi e tiri mancini quando ne aveva l'occasione, ma possedeva anche una morale ferrea che la vedeva come la favorita dai mortali in tutta la Grecia. La giustizia che portava con sé era un metro che Atena applicava su tutto, tanto che Zeus stesso teneva in grandissima considerazione il suo giudizio.
    In quell'occasione in particolare Ares si era spinto troppo oltre. Aveva sterminato una famiglia che lo stesso re dell'Olimpo aveva scelto di favorire e dove aveva piantato il suo stesso seme. Il dio della guerra, tra l'altro, era arrivato sul punto di uccidere il ragazzino: se non fosse stato per Atena avrebbe sicuramente portato a termine quella strage; fu ciò che Ares non esitò a confermare al cospetto di suo padre.
    Ad Ares fu negato di avvicinarsi ai mortali, in un certo senso. Sarebbe stato impossibile riuscire a tenere un dio come lui sull'Olimpo con i metodi convenzionali, perciò fu ordinato ad Apate di dargli da bere l'acqua del fiume Lete, che dona l'oblio, in una coppa che la facesse sembrare nettare divino. Così il dio dimenticò la sua rabbia e la sua sete di sangue, crogiolandosi in un vuoto di sensazioni e restando lontano dalla Grecia e dintorni. Trascorsero così due lunghi anni che i mortali vissero nella pace.
    Ma il Fato aveva già previsto da tempo che questa pace non sarebbe durata per sempre. Un giorno, perciò, la sua continua quiete si spezzò con l'arrivo di una visita per lui.
    Ares si era ormai abituato alle continue visite di Apate. All'inizio si era mostrato diffidente, ma l'acqua del Lete aveva sciacquato via i suoi dubbi a riguardo e col passare del tempo aveva accettato quella nuova routine. Per questo motivo, quando arrivò di nuovo il giorno in cui la dea avrebbe dovuto portargli il nettare, rimase molto sorpreso nel trovare Eris al suo posto.
    La dea della discordia era avvolta in un peplo discinto, il quale le circondava il corpo con i suoi morbidi drappeggi ma riusciva a rendere sensuale e ammiccante il suo corpo divino. Nel suo sguardo c'era la sua onnipresente nota divertita, impossibile da interpretare appieno: difficile dire se stesse solo pensando a qualche tiro mancino o se stesse davvero schernendo tra sé chiunque avesse davanti agli occhi. Il suo sorriso candido aveva forma identica a quello che, qualche volta, sfoggiava Ares stesso: era forse uno dei pochi tratti che avevano in comune, pur essendo gemelli.
    «Ti porgo i miei saluti, fratello. Sono venuta a portarti il tuo nettare». Mentre parlava sollevò la coppa in un gesto eloquente. Stavolta conteneva davvero del nettare.
    Ares, con i sensi annebbiati dall'oblio e i pensieri confusi, si era accomodato sul trono nel salone dei banchetti della sua dimora. L'ambiente enorme sembrava confondersi con le nuvole, ma il colore che regnava ovunque era il rosso: rosso il pavimento, rosse le colonne, rossi i dipinti e i bassorilievi decorativi che c'erano tutt'intorno. Erano rossi anche i cuscini su cui lui si era stravaccato.
    Il dio aveva l'aria più fiacca che mai. Il suo punto di forza era proprio la sua instancabilità, ma l'oblio era riuscito a fargli dimenticare anche questo. Fece solo un cenno vago in direzione di Eris, che senza smettere di sorridere gli si avvicinò con passo felpato e gli porse la coppa, uno sguardo acceso negli occhi mentre fissava Ares con impazienza.
    Il dio prese un primo sorso dalla coppa. La assaporò bene sulla lingua. «Che cos'è? Non ha il solito sapore».
    La dea allargò il proprio sorriso nel constatare che gli effetti dell'acqua del Lete si stavano già dissipando con quella frase. «Te ne sei accorto. La prima volta che hai bevuto dalla coppa di Apate, è bastato il primo sorso per farti dimenticare il vero sapore del nettare».
    Ares, rinvigorito dalla bevanda divina, vuotò in pochi sorsi la coppa. «Che dici? Non potrei mai dimenticare il sapore del nettare. Piuttosto che quello, dimenticherei volentieri la rabbia di Zeus. Come potevo immaginare che, tra tutti gli uteri mortali in cui avrebbe potuto infilarsi, si fosse scelto proprio uno di quelli della famiglia di Proteo?»
    Eris ridacchiò. «Già, peccato. Però è stato divertente, giusto?»
    «Fossi in te non riderei tanto. Sei stata tu a suggerirmi l'idea» ribattè Ares in tono secco. Non si arrabbiava mai con Eris nel vero senso della parola. Probabilmente il fatto che fossero gemelli contribuiva a mitigare di molto il suo comportamento nei confronti della donna: era un atteggiamento di cui potevano vantarsi solo lei e Afrodite. Fatto strano, considerato quanto fossero diverse e quanto poco andassero d'accordo.
    «Io te l'ho solo suggerito: tu hai fatto tutto da solo» replicò prontamente lei in tono noncurante. Subito dopo fece ad Ares un sorriso riconciliante - nel suo caso equivaleva a un segnale di pericolo il più delle volte - e gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle con fare dolce. «Andiamo, non prendertela con me. E' stato solo un piccolo scherzetto e ormai sono passati due anni. Lasciamocelo alle spalle».
    «Si fa presto a chiamarlo scherzetto... un momento». Lentamente, Ares stava acquistando sempre più presa sul presente e su quello che Eris gli diceva. Si raddrizzò sul trono, guardandola stranito. «Che cosa hai detto? Non è possibile. Questo è accaduto non più di tre giorni fa!»
    Senza riuscire più a trattenersi, Eris proruppe in una risata alta e divertita che ad Ares sembrò simile alle punture di migliaia di spilli. Nel petto del dio cominciò a dilagare l'orribile sensazione di essersi appena svegliato da un sonno lunghissimo, durante il quale doveva essere successo molto più di quel che immaginava.
    «Davvero non te ne sei reso conto? Sono già passati due anni da quella volta!» lo canzonò la dea. «Qualunque divinità minore te lo potrebbe confermare. Apate ha ingannato i tuoi sensi e ti ha fatto bere quotidianamente una coppa d'acqua del Lete. Non abbastanza da annullarti completamente come farebbe con un mortale, ma a sufficienza per farti perdere il senso del tempo e del luogo. Mentre tu vegetavi, Persefone è scesa nell'Ade e tornata indietro già due volte». Cercando di smettere di ridere, Eris ammirò con aria soddisfatta e affascinata l'espressione di Ares, che si faceva sempre più rabbiosa.
    Il dio avrebbe volentieri raso al suolo l'Olimpo per quell'affronto. L'avevano di nuovo inibito con uno sporco gioco di prestigio; se da una parte sarebbe stato motivo di orgoglio sapere che gli altri dei non potevano sperare di tenerlo sotto controllo se non con quelle macchinazioni, dall'altra Ares si sentì ricolmo d'ira al pensiero di essere stato vittima dell'ennesima trovata ingiusta. Si sentiva molto più offeso per l'atto in sé che per i due anni perduti: quel lasso di tempo equivaleva a un'ora o a un minuto, per un immortale. Buttò a terra la coppa che aveva in mano con un gesto fulmineo e rabbioso, come se fosse stata coperta di veleno.
    «Dovresti ringraziarmi» continuò Eris imperterrita mentre lui si alzava in piedi. «Se non fossi arrivata io per portarti finalmente il tuo nettare, saresti ancora né più né meno che l'ombra di una divinità».
    Ares scosse la testa. «Ringraziarti? Te la sei presa fin troppo comoda, restando a guardare per tutto questo tempo. La stessa cosa vale per Deimos e Fobos, che avrebbero potuto fare qualcosa».
    Eppure sapeva già che non era il ragionamento giusto. Se davvero quello era stato volere di Zeus o del Fato stesso, allora nessuno avrebbe mai potuto opporvisi. Sicuramente il fatto che Eris fosse giunta da lui per liberarlo proprio in quel giorno era un altro avvenimento voluto dal destino. Non era una questione di volerlo o non volerlo fare: era solo inevitabile che le cose andassero così.
    Con un sorriso mellifluo, la dea si strinse nelle spalle con fare noncurante. Gli si accostò ancora, accarezzandogli il braccio con fare stranamente seducente. «Rasserenati, fratello. Il nettare non è l'unica cosa che sono venuta a portarti. Voglio anche farti un regalo».
    Senza lasciarsi impressionare dalle carezze, Ares si scostò da lei e la guardò con diffidenza. «Che tipo di regalo?»
    Sempre sorridente, Eris si portò davanti a lui. «Non fare quella faccia: ti piacerà. Un bel regalo di bentornato per quando tornerai in Tracia. Conoscendoti, immagino che vorrai tornare laggiù prima possibile».
    Aveva ragione. Non c'era posto che Ares odiasse di più del proprio palazzo sull'Olimpo, al momento: voleva allontanarsi da quel luogo pieno di immortali che si erano presi gioco di lui per ben due anni. «Continua, ti ascolto».
    Incoraggiata, la dea seguitò a parlare. «In quelle terre c'è la famiglia di Pirro, che fa parte dell'aristocrazia da generazioni. Hanno combinato un matrimonio con la famiglia di Crise, che ha le sue terre non molto lontano da loro... ma dietro tutto questo c'è un patetico tentativo di pace da parte di Pirro per un avvenimento di poco più di un anno fa. Ho pensato potesse essere divertente far fallire il tutto miseramente».
    Far fallire un matrimonio, ovvero ciò che la loro stessa madre Era sosteneva con tutto il proprio essere; per di più in una terra ricolma degli atti più iracondi e disumani quale era la Tracia, dove un matrimonio era considerato un evento felice ancora più prezioso che nel resto del territorio greco. Suonava troppo bello per essere vero. Ares aggrottò la fronte, guardandola dubbioso.
    Lei sembrò intuire al volo quello che pensava, perché si affrettò ad aggiungere: «Stavolta non c'è nessun semidio di mezzo! Hai la mia parola».
    Per tutta risposta lui ghignò. «Sorella, non fare finta di niente. So bene quanto tu ti diverta a seminare discordia tra gli dei come tra i mortali. Se mai Zeus dovesse avere qualcosa da ridire per il mio gesto, scatenerebbe la sua ira solo su di me».
    Era quasi certo di sorprenderla per quella diffidenza, ma neanche stavolta Eris si lasciò cogliere impreparata.
    «Ero sicura che l'avresti detto, fratello mio. Ottenere la fiducia degli altri è difficile per me tanto quanto lo è per te, cosa credi?» fece in tono dolce, col risultato di farlo sbuffare. «Per questo stavolta verrò insieme a te. Ti aiuterò molto volentieri. Dimmi solo cosa vuoi che faccia per aiutarti e lo farò».
    Quell'offerta lo sorprese molto. Sbigottito, Ares le porse la mano perché lei la afferrasse, guardandola con non poco sconcerto.
    «Sorella... che cosa ti è mai successo durante questi due anni che ho passato nell'oblio?» chiese. «La Eris che conosco si tiene lontana dal cuore dell'azione e si limita a brindare in disparte al caos che ha seminato».
    Eris prese la sua mano, accarezzandone appena il palmo con le dita e sorridendogli come un'amica affettuosa. «E' passato del tempo dall'ultima volta che abbiamo fatto qualcosa insieme; stare con te mi manca. Vorrei vederti scatenare la rabbia mortale ancora una volta, prima di andare».
    Il discorso suonò molto strano anche ad Ares, mentre si avviavano mano nella mano verso l'uscita del palazzo. I servitori di Ares parevano essersi svegliati dal torpore insieme a lui: tutte divinità minori che si apprestavano a preparare il suo carro da guerra.
    «Andare dove?» chiese lui, guardandola fisso. C'era qualcosa di strano nell'espressione di Eris: come se stesse covando uno scherzo esemplare. Era l'espressione che aveva tenuto per qualche giorno anche in un'altra occasione, subito prima di lanciare un pomo dorato sulla tavola di un banchetto divino e di far così litigare tre divinità tra loro - un litigio che si era trasformato in una lunga e sanguinosa guerra mortale.
    «A un appuntamento. C'è una bellezza bionda che mi aspetta» dichiarò lei in tono sicuro.
    Ad Ares venne da ridere. «Da quando in qua ti interessano le donne mortali?» domandò ancora.
    «Io non ho parlato di una donna, Ares... e neanche di una mortale» si limitò a rispondere lei con fare enigmatico.
    Per nulla propenso a stare ai soliti giochetti della gemella, il dio non indagò oltre.

    La casa di Pirro era enorme e sfarzosa. I toni cupi del tramonto la inondavano di una luce aranciata che si fondeva bene con le torce accese tutt'intorno ad essa. Anche da lontano si scorgeva l'andirivieni dei servitori che portavano grandi otri, ceste di frutta e vassoi carichi di carne ed erbe, oltre a scarrozzare animali per i sacrifici agli dei. Il banchetto di quella sera si sarebbe tenuto in onore del fidanzamento accordato tra il figlio di Crise e la nipote del vecchio Pirro.
    «Perché hanno avuto dei dissapori?» domandò Ares a un certo punto.
    Eris era davanti a lui e gli stava appoggiata contro il petto per non perdere l'equilibrio, il vento che le soffiava tra i capelli lisci e fluenti. I cavalli cominciarono a rallentare la corsa, ma i loro muscoli fremevano come se stessero per prendere fuoco.
    «La nipote di Pirro è un peperino. Una piccola volpe in tutto e per tutto» spiegò Eris. «Il maggiore dei figli di Crise la voleva in sposa. Lei non era d'accordo, così ha trovato un modo per metterlo in imbarazzo davanti ai suoi amici e familiari».
    «Cos'ha fatto di preciso?»
    «Al loro incontro ufficiale ha fatto indossare i propri vestiti e gioielli a uno dei caproni che avrebbero dovuto dare in dono alla famiglia di lui, poi l'ha fatto andare al proprio posto».
    Ares rise forte e di gusto insieme ad Eris al pensiero. Lo trovò molto divertente, soprattutto per il fatto che un simile affronto non era certo facile da perdonare.
    «Quindi ora è stata incastrata con un altro fidanzamento» ragionò Ares ad alta voce. «Quella Melina è cresciuta davvero ribelle».
    «La conosci?» domandò la dea incuriosita mentre il carro, pian piano, si fermava.
    «L'ho incontrata un paio di volte quando era più piccola». Con un ultimo strattone arrestò i cavalli, poi scese dal carro e aiutò Eris a fare lo stesso porgendole la mano. La casa si trovava non troppo lontano dal mare, perciò si era dovuto fermare dietro un gruppo di alberi per non farsi notare. «Una vera volpe, come hai detto tu. In Tracia le donne sono furbe come le ninfe, ma dieci volte più difficili da domare».
    «Oh? Ma come, allora è una delle tue mortali!» borbottò Eris delusa, mettendo un broncio che sul viso di Afrodite sarebbe stato adorabile, oltre che stranamente eccitante. «E io che speravo fosse tutto una sorpresa».
    Ares scosse la testa e rise tra sé. Per qualche motivo non ebbe granché voglia di dire alla gemella che quella non era una delle donne che aveva reso sue - questione di orgoglio - quindi si limitò ad avvicinare le labbra al suo orecchio, sussurrandole con un lieve sorriso d'impazienza il proprio piano.

    Il sole non era ancora sparito dietro l'orizzonte quando il dio della guerra si appoggiò contro un tronco d'albero, in attesa. Aveva le braccia conserte in petto e il chitone gli ricadeva addosso liscio e preciso, lasciandogli scoperto il pettorale destro all'aria salmastra che si respirava là intorno. La brezza gli accarezzava i capelli e il viso dolcemente e con calore - quello di una primavera che si sarebbe presto trasformata in estate. Il giardino dove si trovava era ricco di piante e ben curato: il tipo di luogo dove alle donne piaceva tanto passare il tempo.
    Aveva perso due anni nell'oblio, ma non ne sentiva la mancanza quanto credeva: era certo di non essere mancato a nessuno e che la Grecia fosse vissuta benissimo in sua assenza. Al tempo stesso, però, si chiese sinceramente che fine avessero fatto i mortali in quel lasso di tempo. C'era il guerriero dell'Arcadia molto promettente, c'erano gli Spartani che in due anni avevano dovuto continuare a stare senza i suoi favori, c'erano quei pochi guerrieri ateniesi più fedeli a lui che alla stessa Atena.
    Poi c'era Melina, la piccola volpe che aveva visto prima bambina e poi ragazza. In due anni doveva essere già diventata una donna. Era già stata promessa a un altro aristocratico della Tracia per ben due volte.
    Si erano visti già più di una volta, eppure quella era l'unica in cui Ares si recava in quella zona con il preciso scopo di incontrare lei. Si ritrovò a chiedersi quanto potesse essere cambiata e come lo avrebbe accolto. Non avevano scambiato che poche parole in entrambe le occasioni, quindi non avrebbe dovuto essere una reazione granché esagerata. Eppure, tra sé, Ares era convinto che sarebbe stata contenta di vederlo. Il loro ultimo incontro l'aveva detta lunga su quanto la giovane fosse maturata sia nella mente che nel corpo, in pochi anni... e poi ricordava quello che si erano detti come se fosse stato poco prima - chissà se per merito dell'acqua del Lete o cos'altro.
    Secondo lei era stato il destino a farli incontrare. Un destino che aveva guidato entrambi alla spiaggia la prima volta e nel bosco la seconda. Un destino che aveva tenuto entrambi lontani per due anni, per poi condurre Ares a combinare un'altra delle sue proprio a casa di lei.
    Quelli dovevano essere soltanto eventi casuali. Se davvero si fosse trattato di destino, allora cosa ne sarebbe mai stato di lei?
    Proprio mentre pensava a queste cose, Ares sentì un paio di voci femminili più in là che si avvicinavano al giardino. Si voltò, tendendo l'orecchio in ascolto.
    «Sofronia, che sorpresa è?» domandò l'inconfondibile voce di Melina. Era il tono incerto e un po' prevenuto di chi ama fare scherzi, ma odia che gliene vengano fatti. Il timbro era maturato, rendendo la sua voce più morbida e calda.
    «Non ne rimarrete delusa. Vi ho forse mai fatto degli scherzi come voi a me?» replicò la voce più squillante di quella che in teoria avrebbe dovuto essere Sofronia, una delle ancelle della donna, ma in realtà era Eris sotto mentite spoglie. Una dea che conduceva l'agnello tra le fauci del lupo.
    Infatti eccole là. La dea strizzò l'occhio ad Ares appena lo vide mentre conduceva per mano una giovane donna.
    Melina aveva le efelidi e il viso parzialmente coperti da una striscia di stoffa che le bendava gli occhi, legata con grazia dietro la sua chioma di riccioli castani che al momento le doveva arrivare quasi ai fianchi in lunghezza. Sorrideva appena, ma doveva essere un po' nervosa.
    Gli occhi rossi di Ares sbirciarono la sua figura di sotto in su, come per valutare se valesse la pena fare ciò che aveva in mente. Sua sorella gli indirizzò un sorriso d'intesa che lui ricambiò, poi la falsa serva lasciò le mani della ragazza.
    «Eccoci arrivate. Aspettate solo qualche altro istante: metterò a punto gli ultimi preparativi» mormorò in tono dolce e rassicurante a Melina - un'immagine che su Eris faceva accapponare la pelle. Poi, piano e in silenzio, si allontanò dal giardino e li lasciò soli.
    «Fai in fretta! Questa benda comincia a darmi fastidio!» si raccomandò la giovane mentre Ares si distaccava piano dall'albero su cui era appoggiato e cominciava a girarle intorno, le braccia sempre conserte. Fece meno rumore possibile nell'erba, in modo che Melina non si accorgesse di lui.
    Il suo fisico si era fatto bello, anche se Ares poteva sempre dichiarare che Afrodite fosse migliore sotto ogni aspetto. Gli piacque il modo in cui si stava torcendo le dita mentre attendeva: anche quelle erano coperte da lentiggini. Seguì con lo sguardo la mano destra della giovane mentre si avvicinava al viso con l'intenzione di scostare la benda.
    «Non si sbircia». Lo disse con voce profonda e tono scherzoso quando le passò accanto, le labbra vicinissime al suo orecchio.
    Melina spalancò la bocca, ma ebbe il buonsenso di coprirla con entrambe le mani e di soffocare il gridolino che le giunse alla gola. Rabbrividì come se sentisse freddo, irrigidendo l'intero corpo. Solo dopo un lungo momento passato così, nella sorpresa generale, osò dire qualcosa.
    «Ares...?»
    Lui sorrise appena e si portò alle sue spalle per sciogliere la benda che le copriva gli occhi. «Sei cresciuta, piccola volpe». Si avvolse la striscia di tessuto sulla mano distrattamente.
    Anche dopo averle sfilato la stoffa dal capo, però, lei non si mosse di un millimetro. Anzi, cominciò a tremare lievemente. «Che... che cosa ci fai qui?»
    Nella sua voce c'era paura. Ares ne fu sorpreso: non si aspettava un tale timore, non da quella piccola volpe. L'ultima volta che si erano visti Melina aveva avuto la faccia tosta di picchiarlo, anche se senza successo: possibile che quella ragazzetta dal fare impetuoso e la donna spaventata che aveva davanti in quel momento fossero la stessa persona?
    «Io vado dove mi pare». Il dio le girò intorno, fermandosi poi davanti a lei.
    Melina era irrigidita, gli occhi grigioverdi spalancati a fissarlo e le membra che tremavano. Non respirava nemmeno, proprio come una preda terrorizzata dalla presenza di un cacciatore. Uno scenario che ad Ares era sempre piaciuto: non se ne dispiacque affatto, anche se doveva ammettere di essere rimasto stupito. «Hai imparato a riconoscermi il dovuto timore, vedo. Tua madre deve averti insegnato bene» osservò, trapassandola con il suo sguardo affilato.
    Giocare con una mortale spaventata era sempre divertente. Da lei si sarebbe aspettato uno spirito più combattivo, ma non riusciva a percepirne neanche una briciolo nel suo animo. Quando era ancora bendata l'aveva percepito chiaramente, il suo ardore, ma dopo era svanito all'improvviso. Che fosse spento o nascosto, era ancora tutto da vedere.
    Lei abbassò lo sguardo, evitando il suo e stringendosi nelle spalle. Il suo corpo era cresciuto, eppure in quel momento gli parve anche più piccola rispetto alla prima volta che l'aveva vista. Finalmente parlò, anche se con voce tremante e lieve. «Che cosa vuoi farmi stavolta?» chiese.
    «Che cosa ti dice che io voglia farti qualcosa?» la incalzò lui, sempre con un sorriso compiaciuto sulle labbra.
    «Ti ho incontrato solo due volte, Ares assassino di uomini. La prima volta mi hai gettato tra le braccia di una lunga punizione, mentre la seconda mi hai messa in cattiva luce davanti alle mie care amiche. Ci hanno visti insieme e hanno pensato che...» la sua voce si spense. Melina si coprì il viso con entrambe le mani. «Quel nostro incontro ha gettato sulla mia famiglia una macchia che non sono più riuscita a cancellare. Ogni volta che ti vedo mi succede qualcosa di brutto. Cosa ho mai fatto per meritarmi questo sfavore da parte degli dei?»
    Da compiaciuto che era, Ares restò nuovamente sbalordito. Quella piccola volpe lo stava accusando di colpe che lui non riconosceva. Non solo: era convinta che la colpa di tutto ciò che le era successo fosse sua.
    «Quello che dici è falso. Tu stessa ti sei fatta punire la prima volta e sei stata sempre tu a seguirmi» replicò freddamente. Il sorriso era sparito: sentiva uno strano gelo invadergli il petto. «Hai causato ogni cosa con le tue stesse mani».
    Lei scosse la testa. Allontanò dal viso le mani, stavolta guardandolo dura. La fiamma nel suo petto si era riaccesa, ma di un calore e di una luminosità che Ares non aveva previsto. «No, io so che non è così! Il dio della guerra non si mostra mai tra i mortali senza portare distruzione e scompiglio. Ares, puoi forse ammettere di essere venuto qui senza quelle intenzioni?» domandò in tono duro. «Dovrei forse credere che tu sia venuto qui solo per vedermi?»
    Inderdetto, Ares non trovò una risposta da darle subito. Melina sorrise amaramente.
    «Certo che no. Parlando di ciò che mi era successo a mia madre e alle mie ancelle ho capito ogni cosa» continuò con voce incrinata. «Nulla di buono può venir fuori da un incontro con Ares. E' il dio più odioso dell'Olimpo, oltre che quello che mai sarà capace di fare del bene. Il destino...»
    «Basta. Stai zitta! Zitta!» ringhiò Ares rabbioso. Le afferrò i polsi e li strinse, scuotendola con forza. «Come osi, mortale? Tu non sai niente di me!»
    Finalmente era tutto chiaro. Melina aveva trascorso gli ultimi anni a schiarirsi le idee riguardo quello che era successo, con la sola compagnia di sua madre e delle altre donne che la circondavano. Un ambiente che l'aveva forgiata per trasformarla in una donna come tutte le altre. Il fuoco che una volta aveva reso il suo animo combattivo e indomabile ora alimentava solo il suo odio.
    Le labbra della donna si contrassero per il dolore, ma il suo sguardo restò fisso. «Nemmeno gli dei possono sottrarsi al Fato. Se esso ti ha mai condotto al cospetto di qualcuno è sempre stato per distruggerlo». Mentre parlava, gli occhi le si riempivano di lacrime. «Per tutto questo tempo io ho solo avuto paura che tu tornassi ancora davanti a me!»
    «Fai silenzio, donna!» protestò Ares, sempre più arrabbiato. Voleva solo che lei tacesse. Sentire la sua voce gli dava man mano più fastidio. Come osava parlargli in quel modo? Non era lei la piccola volpe che da bambina aveva sperato di renderlo complice dei suoi dispetti? Non era lei quella che da ragazzina si vantava di essere agile e veloce, chiacchierando con le amiche?
    «No, non lo farò!» insisté lei. «Avanti, cosa vuoi farmi stavolta? In quale altro modo hai intenzione di rovinarmi la vita?!»
    Ares la baciò, riducendo finalmente al silenzio quella lingua così fastidiosa. Lasciò andare i suoi polsi per portare una mano dietro la sua nuca e l'altra sulla sua schiena, attirandola a sè. Melina parve congelarsi sotto la sua stretta.
    No, non era lei. Quella non era più la sua piccola volpe. Era solo un oggetto. Una donna come tutte le altre. Quella piccola scintilla che un tempo aveva visto in lei doveva essere sparita del tutto, sotterrata dagli insegnamenti della madre per diventare una brava moglie.
    Gli occhi di Ares erano già di un rosso incandescente. Si allontanò dalle sue labbra e tornò a sorridere nel vedere ancora il terrore invaderle lo sguardo.
    «Parli troppo. Visto che lo sai, non perdiamo altro tempo». La guardava con rabbia. Nei suoi occhi non c'era neanche l'ombra del sorriso che stava facendo. «Sappi però che non ti piacerà».

    Non pensava più al piano ordito con Eris, né al modo per inimicare le due famiglie della Tracia ancora di più. Voleva soltanto rovinarla, umiliarla, macchiarla definitivamente.
    Melina non poté emettere suono, soffocata a tratti dalla bocca e a tratti dalle dita ruvide e forti del dio. Fu però scossa dai brividi nel sentire le mani di Ares che la esploravano e la ghermivano con forza; quando lui la penetrò non riuscì più a trattenere le lacrime. Doveva sentire un dolore indicibile, a giudicare dai mugolii soffocati che emetteva. Quando Ares venne dentro di lei, la donna gemette assieme a lui, la voce debole e piena di dolore.
    Nei momenti in cui il dio decideva di possedere una mortale, era raro che queste potessero sopportare la furia del suo amplesso: ci metteva sempre troppa foga e non pensava mai al bene della donna che abbracciava.
    Quella volta, però, Ares si chinò su Melina per guardarla in viso, aspettandosi di vederla incosciente. Stranamente, invece, era ancora vigile... e aveva uno sguardo terribilmente triste.
    «Che ti prende, adesso?» domandò Ares gelido. Fece scivolare una mano sulla sua coscia, fermandola sotto il ginocchio. «Non sei felice del mio regalo? Ti ho tinto la pelle con il rosso del tuo sangue, qui sotto. Il colore che si è guadagnato ogni mortale che ha mai osato sfidarmi».
    L'inguine di entrambi infatti era coperto di macchie di sangue, sia per la verginità ormai perduta che per le ferite. Il dolore doveva essere tale da renderle impossibile restare cosciente ancora a lungo.
    Lei ebbe solo la forza di portarsi una mano al viso e di coprirsi gli occhi. Continuava a piangere, singhiozzando sommessamente. Il dio non se ne preoccupò, già deciso a continuare, quando la sentì dire qualcosa che non capì.
    «Come hai detto?»
    «Tu non amerai mai nessuno, Ares» ripeté Melina con un filo di voce.
    Quelle parole avrebbero avuto un impatto non indifferente su qualunque uomo. Non c'era alcun onore nel prendere una donna con la forza, neanche in quella Tracia selvaggia e spietata.
    Lui si irrigidì per un momento, poi sbuffò una risata. «Il mio unico amore è la mia lancia coperta di sangue» rispose con tono sicuro. Non si sarebbe mai sprecato a raccontare bugie a una mortale: per lui quella era la pura e semplice verità.
    Le lacrime non volevano smettere di scenderle dagli occhi, finendo tra i suoi riccoli scuri. «Non sai fare altro che del male. Le persone con te conoscono solo il dolore. Io spero...» singhiozzò «...che nessuno si innamori mai di te. Sarebbe troppo triste».
    Forse in quel momento Ares avrebbe ancora potuto redimersi da quell'atto orrendo. Avrebbe potuto chiederle perdono per l'offesa e farle dei doni, oppure prenderla come sposa. Nulla di tutto questo, però, entrò a far parte dei pensieri del dio, che al momento sentiva solo il bisogno di farla stare zitta una volta per tutte, anche infierendo senza pietà sulle ferite che aveva già aperto. Era arrivato a tanto per ridurla al silenzio, invece continuava ancora su quel punto.
    «Ironico da parte tua, piccola volpe». Quel nomignolo gli uscì del tutto involontario: ormai quella non era più una piccola volpe, dopotutto. Ares uscì lentamente dal suo corpo, osservandole l'intimità senza alcun riguardo né pudore. «Proprio tu lo dici, che sei stata tanto sciocca da innamorarti di me e da lasciarti ingravidare». Tornò a fissarla in viso con sufficienza. «Sarà meglio che sia un maschio. Non saprei che farmene di un'inutile semidea».
    Sempre sofferente, Melina non parve nemmeno sentire quelle parole umilianti. Voltò lo sguardo di lato, invece, senza guardarlo più in faccia.
    «E' vero. Sono davvero una sciocca» ammise. Fece un sorriso lieve, carico di amarezza. «Mi ero convinta di aver visto della gentilezza, in te. E' stato il più grande errore della mia vita».
    «Sono d'accordo» concordò lui secco, alzandosi in piedi e risistemandosi il chitone. «Ormai starà già arrivando qualcuno. Che ne dici? Ti ho rovinato la vita, donna?»
    A quelle parole, lei non riuscì nemmeno a rispondere. Tremava tutta, dalla testa ai piedi. Riuscì solo a scoppiare in singhiozzi, lasciandosi andare a un pianto carico di disperazione.

    «Quindi è per questo che sembri così di cattivo umore, ultimamente» concluse Afrodite qualche giorno più tardi.
    Erano entrambi stesi nel letto di lei, come sempre. La dea era stesa tra le coperte soffici e si era appoggiata ai cuscini col viso rivolto verso Ares. Non sorrideva o altro: si limitava a scrutarlo con attenzione con gli occhi chiari e luminosi, come se stesse pensando al modo migliore per agire.
    Il dio della guerra era steso supino accanto a lei, ma a quelle parole si girò su un fianco e le diede le spalle. «Cosa vuoi che m'importi di quello che dice o fa una qualsiasi stupida mortale?»
    La dea, dietro di lui, gli sfiorò le spalle e tracciò pigramente dei vaghi ghirigori sulla sua pelle nuda e abbronzata. Ares non poté guardarla in viso in quel momento, ma intuì che non stava affatto sorridendo.
    «Ti importa. E' pur sempre una delle donne a cui hai affidato il tuo seme». Nella sua voce c'era una punta di fastidio. «Sai benissimo che io sono l'unica in grado di darti dei figli degni di te. Non dovresti sprecarti a usare uteri diversi dal mio».
    Lui si sottrasse al suo tocco, infastidito. «Faccio come voglio. E comunque di quali figli parli? Non certo di Eros e Anteros».
    «Deimos e Fobos sono figli tanto miei quanto tuoi. Non dimenticartelo, Ares» ribatté Afrodite in tono più duro del solito. «Ti ho dato i servitori più devoti e fidati che tu abbia mai avuto. Già questo dovrebbe bastarti come prova: i figli che potrai ottenere con me saranno sempre migliori di quelli di qualsiasi altra donna».
    Ares rise. Si diede lo slancio per mettersi a sedere sul letto, poi si voltò verso la dea, nello sguardo un'occhiata di scherno. «Questo lo sanno bene anche gli altri Olimpi, o sbaglio?»
    Lei ancora non sorrideva. Inclinò di più le sopracciglia, visibilmente irritata. «Bada a come parli. Cosa vuoi insinuare?»
    «La tua pelle ha un odore molto buono. Dioniso deve averti offerto il suo vino migliore».
    Durò solo per un attimo: lo sguardo degli occhi chiari di Afrodite si accese di una vampata incandescente di rabbia distruttiva - quella che culminava quasi sempre in una sorte terribile a danno di qualche mortale. La dea però si calmò subito dopo.
    «Mi piace quando fai il possessivo con me, Ares».
    Una reazione estremamente più tranquilla rispetto a quella che il dio si sarebbe aspettato - tanto che lui si chiese sinceramente se Afrodite non fosse fuori forma. Non aveva neanche accennato all'idea di infuriarsi con Melina per il modo in cui aveva osato comportarsi con lui; quello era un esito che già Ares aveva avuto il dubbio piacere di vedere altre volte, quando le mortali acquistavano troppa sicurezza e diventavano sfacciate nei confronti delle loro divinità. Se colta dalla rabbia, Afrodite diventava una furia distruttrice, pericolosa quasi quanto lui. Era un altro motivo per cui gli piaceva così tanto quella dea.
    «Beh? Che ti prende?» chiese. «In genere sei tu quella possessiva. A quest'ora saresti già andata da quella mortale per prenderla e trascinarla per i capelli fino alla tana di qualche creatura mostruosa».
    Finalmente, la dea sfoggiò uno dei suoi bei sorrisi - uno di quelli enigmatici e seducenti. «Oh, Ares» disse, pronunciando il suo nome con voce tanto calda e seducente da fargli sentire un brivido lungo la schiena. «Non mi scomoderò per una ragazzina che hai già provveduto tu a umiliare. Inoltre ci sta pensando da sola».
    Ares si stava chinando verso Afrodite, richiamato da quella sua voce irresistibile, ma si fermò a un soffio da lei. «Che significa?»
    Lei si appoggiò meglio sul cuscino, tenendo sempre un occhio puntato su Ares. «La sento, la sua follia passionale. Mangiando erbe mediche e farmaci letali sta tentando di distruggere la vita che ha già messo radici nel suo corpo. Povera sciocca! Serve ben altro per uccidere un semidio, anche se non ancora nato».
    Il dio accolse la notizia senza sapere bene come reagire. Era triste doverla vedere sotto quell'aspetto, ma non se ne preoccupava quanto credeva: gli omicidi e tentati omicidi ai danni dei suoi figli erano già così numerosi che ormai quegli eventi non lo tangevano più di tanto. La cosa strana, però, era che fosse la madre stessa a tentare di abortire.
    Vedendo la sua espressione, Afrodite intuì cosa gli passasse per la testa prima ancora che lo capisse lui stesso.
    «Tranquillo, dio della guerra. E' già abbastanza raro che tu crei una vita piuttosto che distruggerla: non ho intenzione di accanirmi contro di essa. In fin dei conti la ragazza ha detto una cosa giusta».
    Sollevò una mano e gli accarezzò il capo, infilandogli le dita tra i capelli. Poi lo attirò a sé e gli posò un bacio bollente sulle labbra. Notò il suo sguardo contrariato e sorrise.
    «Non ingannare te stesso, Ares. E' vero: tu non sei mai stato capace di amare qualcuno con tutto il tuo cuore».
    Le labbra del dio si strinsero in una smorfia severa e rabbiosa. Chinò il viso verso la spalla nuda di Afrodite, mentre con un braccio le cingeva la vita. Le sfiorò la pelle con i denti, come in una minaccia velata di bramosia.
    «Non m'interessa, non ne ho bisogno» sottolineò. «L'amore è lo stesso stupido sentimento che l'ha rovinata. Una debolezza simile non la voglio trovare da nessuna parte».
    Afrodite si girò su un fianco, permettendogli di raggiungere i suoi seni. Mentre lui le succhiava la pelle morbida e palpava le sue forme a piene mani, lei rise sommessamente.
    «Questo è un vero peccato. Non sai quanto vorrei vederti ardere per me fino a quel punto. Tanto da rifiutare qualunque grazia non mi appartenga. L'amore ti farebbe bene».
    Ridendo sentitamente, Ares le lanciò un'occhiata di scherno. «Detto da te, che mi stai usando per tradire mio fratello, è davvero ironico. Ammettilo: sarai anche la dea dell'amore, ma non ne sei mai stata toccata neanche tu».
    Sentì il tocco gentile delle mani della dea sulle proprie spalle... e un attimo più tardi sentì una spinta abbastanza poderosa da farlo finire dall'altro lato del letto.
    «Come osi?! Non ti permettere di parlarmi in questo modo, Ares!»
    Afrodite si era alzata in piedi sul letto e guardava Ares con rabbia. I suoi bellissimi capelli ricadevano sulle sue spalle e circondavano il suo corpo nudo, con punti della carnagione ancora arrossati dal tocco di Ares e i seni inturgiditi da un'eccitazione sostituita dall'offesa.
    Per tutta risposta, il dio della guerra rise ancora più forte. Scese dal letto, mettendosi in piedi accanto ad esso, ma guardò la propria amante divertito. «Stai scherzando?» la stuzzicò ancora sornione. «Vorresti dirmi che tu credi in quella roba? Tu, che ti fai così docile davanti a un bell'uomo a prescindere dalla sua natura? Tu, che tradisci Efesto più volte al giorno? Hai ancora addosso il sapore del vino in cui Dioniso ti ha fatto bagnare», incalzò, sottolineando le sue ultime parole leccandosi le labbra.
    Se per una frazione di secondo Afrodite parve sinceramente addolorata, non concesse al proprio amante il tempo di accorgersene. Lo guardò adirata e puntò il dito verso i numerosi tendaggi che coprivano l'uscita dalla sua stanza da letto. «Tu non sai niente di me, o dell'amore, Ares. Niente! Non osare parlare di ciò che non ti compete. E adesso vattene fuori dal mio palazzo!»
    Il sorriso di Ares si spense lentamente. «Fai sul serio? Non ci credo».
    Per tutta risposta lei si mise a braccia conserte e si voltò dall'altra parte, senza aggiungere altro.
    Con uno sbuffo di scherno, Ares scosse la testa e recuperò il proprio himation, avvolgendolo intorno al proprio corpo con gesti sbrigativi. «Tornerò domani».
    «Non ti riceverò, Ares, è inutile che tu ti faccia vedere».
    Sapeva che Afrodite sarebbe rimasta col broncio per un periodo di tempo molto breve. Era una dea volubile, capricciosa e permalosa, ma desiderava Ares più di quanto non fosse disposta ad ammettere. Di questo Ares era certo.
    Così come era certo che Afrodite non lo amasse affatto, né avesse mai amato nessun altro.

    Eris fu imprigionata nel Tartaro, dopo il giorno in cui Ares usò violenza contro Melina. Ovviamente il motivo che spinse Zeus a punirla tanto severamente non fu la bravata che i due gemelli idearono insieme, ma un altro di diversa natura. Un crimine contro uno dei figli di Zeus - probabilmente un dio, vista l'entità della punizione. Ares non si informò più di tanto sull'accaduto: quel che contava era che Eris non sarebbe più stata con lui per molto tempo. I suoi sentimenti erano molto confusi a riguardo; non avrebbe saputo dire se la cosa lo rendeva felice o meno.
    Col passare di alcuni anni, tuttavia, il dio della guerra si abituò all'assenza della sorella e finì per non badarvi più. La sua esistenza continuò a trascorrere come al solito: disprezzato da suo padre, odiato da suo fratello, fortemente desiderato dalla sua amante (che nel frattempo gli aveva perdonato le sue parole offensive).
    L'unica dall'atteggiamento incomprensibile era Atena. I suoi occhi lucenti riuscivano spesso a scorgere legami tra le persone e tra gli eventi dove nessun'altro era in grado; poco si sapeva di cosa le frullasse in testa. Talvolta scrutava Ares con rabbia, in altre occasioni invece pareva compatirlo. Non gli diceva mai niente, però; restava semplicemente lì, con lo sguardo fisso su di lui e le labbra serrate. Per quanto il dio della guerra apprezzasse il suo ritegno, quell'atteggiamento non sarebbe durato a lungo e lui lo sapeva fin troppo bene. In fin dei conti la dea della giustizia assomigliava moltissimo a quella della discordia: se Eris non riusciva a trattenersi a lungo dal seminare caos, allo stesso modo Atena era naturalmente portata a dire e fare sempre di tutto perché fosse sempre fatta giustizia.
    Quando una mattina, però, si recò alla dimora di Ares in Tracia per parlare con lui, fu per discutere di un argomento che lo colse di sorpresa. Era in compagnia di Fobos e Deimos e stavano camminando verso il giardino, quando Atena fece la sua comparsa davanti a loro.
    «Non hai più visto Melina da quella volta».
    Deimos sollevò lo sguardo su suo padre, dubbioso; Fobos tenne gli occhi puntati sulla dea, cupo in viso. Ares aggrottò la fronte in un cenno infastidito, come se il ricordo di quella persona gli desse fastidio.
    «Come sai di lei? Chi te ne ha parlato?» domandò svelto.
    Lei fece finta di non sentirlo. «La tua abitudine di abbandonare le mortali che prendi continua, vedo. Non provi neanche un po' di rimorso?»
    Deimos soffocò a stento una risata, le spalle larghe che fremevano appena. Il gemello gli diede una pacca sulla spalla a mo' di monito, ma sorrideva anche lui. Anche Ares sorrise, ma scosse lievemente la testa. «Ti consiglio di scegliere una domanda più saggia da pormi, sorella».
    Atena lo fulminò con lo sguardo, come sempre quando lui rievocava la loro parentela. Poteva anche essere interessata a modo suo ad Ares, ma c'era una certa differenza tra quello e il considerarlo un fratello. «Quindi non hai visto tua figlia».
    Il sorriso di Ares si spense. I suoi figli si irrigidirono visibilmente nell'udire quelle parole.
    Una figlia. Dunque Melina non solo aveva fallito come donna degna di Ares, ma aveva anche messo al mondo un'inutile femmina semidea. La piccola volpe aveva decisamente perso il pelo, ormai, ma evidentemente il suo vizio di prendersi gioco della gente nel modo sbagliato era rimasto. Cosa se ne faceva il dio della guerra di una femmina? Il dio sapeva fin troppo bene quanto fossero inutili le semidee: raramente diventavano delle degne discendenti, il più delle volte facevano una brutta fine o erano date in sposa ai mortali più meritevoli, niente di più. Non riusciva a credere che quella mortale, avendo a disposizione il seme di un dio, non fosse riuscita a concepire altro che una patetica femminuccia. Un simile gesto andava punito.
    «Una figlia... una femmina». Negli occhi di Ares ardevano le fiamme. «Quanto tempo è passato? Cinque anni?»
    «Sette» replicò Atena in tono cauto. «Che cosa hai intenzione di fare?»
    Ma Ares non la ascoltava. Lanciò un'occhiata a Deimos, che parve capire e si avviò verso l'interno della dimora colossale. Il dio poi si rivolse ad Atena. «Questo è un insulto bello e buono. Non me ne faccio niente di una femmina. Avrà la fine che si merita».
    Atena gli si avvicinò e gli prese la mano destra tra le proprie. Erano state poche in passato le occasioni in cui gli era stata così vicino. Aveva gli occhi lucenti fissi nei suoi e Ares sentì perfino il suo calore corporeo irraggiarsi dal centro del suo petto. «Ares, hai davvero intenzione di farlo? Melina dopo allora è riuscita a sposarsi, ma il marito è morto per un incidente. Non le resta che quella bambina al mondo. Hai davvero intenzione di ucciderla?»
    «Non è necessario che lo faccia tu, padre. Andremo io e Deimos» propose Fobos con un piccolo sorriso.
    «No, Fobos. Non ho intenzione di farla uccidere personalmente da un dio. Vai con Deimos, piuttosto: aiutalo a recuperare i miei cani per la caccia» disse Ares con voce ferma.
    La dea davanti a lui parve meno agitata del solito, stranamente. Forse ormai si era abituata ai modi di fare del dio della guerra. Forse si era arresa al fatto di non poterlo fermare. «Stai commettendo un grosso sbaglio, Ares. Lei ti amava... hai davvero intenzione di rovinarle la vita in questo modo?»
    Lui sbuffò. «Quella donna non ha alcun valore per me, ormai. Sto andando a riprendermi la vita che ho seminato per sbaglio, tutto qui. Inoltre...» sorrise «...sarebbe un peccato rovinare le aspettative di quella mortale. Lei ha creduto sinceramente che io volessi rovinare la sua vita? Ebbene, gliela renderò talmente insostenibile da farle desiderare l'Ade prima che venga il suo tempo».
    Fu allora che Atena sgranò gli occhi, sinceramente sorpresa. Quello che si leggeva nelle sue iridi luminose, però, non era orrore e neanche spavento.
    «Ares... ma allora tu...!»
    Ares si liberò dalla sua presa. Le rivolse un sorriso sprezzante.
    «Fai come se fossi a casa tua, mentre sono via. Non ci metterò molto».
    Certo che no. Spezzare la vita di una bambina era fin troppo semplice da fare.

    Nel giro di poco tempo Ares fu fuori, pronto. Indossava un chitone che gli lasciava libere le gambe, portava con sé la spada. Era a piedi, ma questo non costituiva un problema per lui: per dove aveva intenzione di andare, il suo carro sarebbe stato solo d'impiccio.
    Attorno a lui, zampettando in circoli irregolari, vorticava un folto gruppo di grossi cani da caccia dal pelo vario. Alcuni guidavano il gruppo correndo in avanti, altri annusavano altrove o si avvicinavano al dio cui erano sacri scodinzolando. Parte di quegli animali era di stirpe divina, perciò era impossibile che fallissero nell'intento.
    Il sole era alto, ma il cielo era completamente nuvoloso e conferiva a tutto il paesaggio un'aria grigia e pesante. Per nulla turbato, Ares cominciò a correre.
    Atena non aveva provato a fermarlo, cosa di cui non ci si poteva stupire: c'era ben poco che potesse fare per impedire ad Ares di fare qualcosa. In fin dei conti non era una questione che riguardasse un qualsiasi altro dio al di fuori di quello della guerra; non aveva il diritto di impicciarsi, a prescindere da cosa pensava dell'intera faccenda. Sicuramente lei stessa doveva essersi resa conto che sarebbe stato inutile mettersi in mezzo... e poi era stata proprio lei ad andare da lui, ricordandogli di Melina e dicendogli della bambina. Chissà, forse lei stessa desiderava la morte di quell'innocente.
    I cani da caccia lo condussero molto lontano, fino a un bosco nell'entroterra della Tracia. Era una macchia estremamente fitta, con le chiome tanto alte e folte da coprire il cielo. Una volta arrivati in fondo, Ares finì per sentire solo gli ansiti, gli sbuffi e i latrati degli animali tutt'intorno, mentre la fauna selvatica e le divinità minori si ritraevano spaventate al loro passaggio.
    Uno dei cani più piccoli drizzò le orecchie e si immobilizzò, fiutando l'aria. Una femmina lo imitò poco dopo, puntando il muso nella stessa direzione. Nel giro di un minuto l'intero gruppo di cani aveva fiutato quella traccia e si era immobilizzato, in attesa e pronto allo scatto.
    Il dio sorrise, impaziente. «Portatela da me».
    Senza più emettere neanche un latrato, i cani si lanciarono nel folto del bosco, dando finalmente il via alla caccia. Ares invece non si mosse dal proprio posto, anzi: si appoggiò comodamente al tronco di un albero, aspettando che l'ordine venisse eseguito.
    Non aveva alcuna intenzione di abbassarsi a prenderla di persona. Sarebbero stati i cani a portargliela, viva o morta. Dopodiché, ragionò Ares, avrebbe lasciato la sua testa davanti alla casa di Melina.
    Deimos si era già mosso per trovare la sua attuale abitazione. In teoria non avrebbe dovuto trovarsi troppo lontano da lì: quella zona era la stessa in cui si trovava il palazzo del ricco padre di Melina, in fondo. Il dio ricordava quel folto come se ci fosse stato solo il giorno prima: ci aveva nascosto il carro con cui era sceso dall'Olimpo.
    Storse il naso. No, non avrebbe fatto quello scherzo. Scenari macabri come quello si addicevano maggiormente ad Eris, che traeva un gran piacere dalla morte e dalla disperazione che seguivano un atto violento. Lui si sarebbe limitato a guardare una volta sola l'indegna semidea, poi l'avrebbe data in pasto ai propri cani. Di per sé, pensò, sarebbe stato un grande onore per una misera bimbetta che non sarebbe mai dovuta venire al mondo.
    Più aspettava, però, più Ares si faceva impaziente. Non proveniva alcun rumore dalla direzione in cui i suoi cani si erano messi a correre, segno che ci stavano impiegando molto più del previsto. Accigliato, il dio scosse la testa con disappunto e cominciò ad avviarsi personalmente. Era pieno giorno e la foresta pareva spaventata dalla sua sola presenza, quindi non volava una mosca: possibile che fosse tanto complicato per dei cani adulti e ben addestrati catturare una bambina che ancora puzzava di latte?
    Avvanzando nel folto, scavalcando bassi cespugli e aggirando alberi, Ares cominciò a sentire dei latrati in lontananza. Erano i suoi animali, ma a giudicare da quel che sentiva dovevano essersi fermati. Era possibile che si fossero messi a banchettare con il cadavere prima del tempo, in effetti; la cosa non avrebbe stupito affatto il dio, che continuò ad avanzare provando a immaginare il genere di scenario che si sarebbe trovato davanti.
    I latrati si facevano man mano più distinti, i rumori più facili da interpretare. I cani erano agitati, ma non sembravano rabbiosi, quindi non si stavano accanendo sulla preda. Però non erano neanche spaventati. Cosa stava succedendo?
    Ares, che ben presto cominciò a intravederli più avanti, lo capì non appena fu abbastanza vicino da vedere la scena.
    I cani zampettavano qua e là, quasi tutti ammassati, in piccoli cerchi che convergevano in un unico punto. Sembravano tutti di improvviso buonumore, con le lingue penzoloni e le code che si dimenavano come impazzite. Al centro di quelle feste c'era la semidea che voleva uccidere.
    Non era assolutamente come Ares si aspettava. La bambina era sottile come un giunco e la tunica leggera che indossava la faceva sembrare come dentro a un sacco di patate. I suoi capelli erano lisci e rossi e le avvolgevano le spalle in una criniera poco curata. Dalla sua posizione, per finire, il dio intravide l'espressione sul suo viso rotondo: sembrava neutra, quasi annoiata mentre con le piccole mani si faceva scudo dai musi che tentavano di leccarla e che la annusavano tutt'intorno.
    Senza parole, Ares fece un altro passo verso di lei. Finalmente i cani parvero accorgersi della sua presenza, perché si acquietarono di colpo e si fecero indietro. Nonostante tutto, però, non torsero un capello alla bambina lì in mezzo.
    «Che ci fai qui? Cos'hai fatto ai miei cani?» domandò brusco.
    Lei si voltò verso di lui.
    Ora che ce l'aveva davanti, Ares dovette correggere le sue prime impressioni sul suo conto. Lo sguardo della bambina sembrava ardere di fiamme scarlatte mentre lo fissava. Aveva ereditato i suoi stessi occhi... anzi, non solo quelli. Tutto della sua espressione ricordava un Ares dominatore, per nulla disposto a farsi sopraffare da una muta di cani da caccia. Nella sua espressione c'era solo un granello di incertezza, probabilmente dovuto alla sua giovane età: in fondo tra quei cani ce n'erano alcuni perfino più grossi di lei, per di più erano cani sconosciuti arrivati all'improvviso.
    Per il resto, Ares era davvero stupito. Quella bambina era la sua copia sputata. Se la guerra fosse stata una bambina, avrebbe avuto quello stesso aspetto. Nelle sue caratteristiche non riuscì a scorgere la minima traccia di Melina.
    La bambina parve sorpresa quanto lui nel vederlo, forse di più. Per un attimo parve smarrita, gli occhi aperti a squadrarlo da capo a piedi, ma si riscosse alla svelta. «Sono i tuoi cani che sono venuti qui da me! Io non ho fatto proprio niente!» ribatté a tono, con decisione. «E tu cosa ci fai qui? Io stavo giocando!»
    La risposta fu così pronta e decisa, presentata senza la minima traccia di rispetto e con quegli occhi rossastri che ardevano di sicurezza, che Ares non seppe se ammirarla per la faccia tosta o sentirsi offeso come dio. L'istinto lo portò a una via di mezzo tra le due cose.
    «Io sono a caccia. Sto cercando una preda in particolare. Tu vuoi forse darmi a bere che stai giocando nel cuore del bosco completamente sola? E' una fortuna che tu non sia stata uccisa da qualche animale».
    Lei si mise a braccia conserte. Come gli somigliava, anche in quei piccoli gesti! «Non paragonarmi alle femminucce pavide del mio villaggio! Il bosco non mi fa paura, è da tantissimo tempo che vengo a giocare qui. Tu invece dovresti trovarti dei cani da caccia nuovi. Invece di inseguire la preda mi sono tutti venuti incontro e si sono messi a farmi le feste».
    Su quell'ultimo punto non poteva darle torto. Lo sguardo di Ares si affilò mentre faceva un altro passo verso di lei, mettendosi a propria volta a braccia conserte. Gli occhi della bambina si posarono per qualche attimo sulle sue braccia muscolose, ma tornarono in fretta a concentrarsi sul suo viso. Non era una sprovveduta: stava bene all'erta, pronta a qualsiasi passo falso da parte di quello sconosciuto grande e grosso.
    «Tua madre dov'è?» chiese il dio.
    «Non sono affari tuoi!» ribatté prontamente la bambina, mentre un cane le si strofinava contro il fianco nella ricerca insistente di carezze. Lei gli fece una coccola distratta.
    Ares fece un gesto annoiato della mano. I cani si allontanarono di più dalla bambina e restarono completamente muti e immobili, ubbidienti. La piccola si guardò intorno, smarrita da quel cambiamento improvviso.
    «Tua madre dov'è?» chiese ancora Ares con voce ferma.
    Stavolta non avrebbe ammesso una risposta irriverente. Lei parve capirlo. Abbassò lo sguardo, chiaramente a disagio nel dover fare la brava e rispondere alla sua domanda. «A casa al telaio, o forse a prendersi cura dell'orto» rispose vaga.
    Proprio delle mansioni da donna. Melina doveva essere diventata una perfetta mogliettina. «Tuo padre, invece?»
    La semidea incassò la testa nelle spalle. Il suo sguardo si fece più truce, forse per rabbia o forse per nascondere la tristezza. «Io non ho un padre».
    Non era la risposta che Ares si aspettava. Atena aveva detto che il marito di Melina era morto per un incidente. Cos'era quella novità? «Sciocchezze. Tutti hanno un padre».
    Lei scosse la testa con vigore. «No, io no. L'uomo che mia madre ha sposato era cattivo e adesso è sceso nell'Ade. Mi chiamava sempre "bastarda" e mi picchiava se provavo a usare quel nome con lui. Quindi non era lui mio padre».
    Per nulla commosso da quel racconto, Ares continuò: «quindi pensi di essere solo figlia di tua madre? Davvero?»
    «Se ho un padre vero, non lo voglio. Sto benissimo senza di lui» replicò la bambina spiccia. «A te cosa importa? La tua preda sarà scappata via!»
    Non sembrava triste. Il volto della bambina era pieno di determinazione, della sicurezza di una persona abituata da sempre a badare a se stessa. Non era odio quello che provava per il padre naturale o per l'uomo che aveva accettato di sposare Melina, ma disprezzo e sufficienza. Quella era una forza d'animo incrollabile: una forza che l'avrebbe facilmente portata alla grandezza anche senza l'aiuto o la compagnia di nessuno. Poco importava se le bambine perbene non si addentravano mai nel bosco per giocare o se finiva per passare le giornate senza neanche un amico: lei era forte e stava benissimo da sola.
    Ares scorse tutto questo, in lei, restandone sorpreso per primo. Non era mai stato abile a capire le persone, né gli era mai interessato capirle... eppure con quello scricciolo gli venne naturale. Perché quella bambina, quella semidea, era identica a lui.
    «Qual è il tuo nome?» domandò Ares dopo qualche attimo di silenzio.
    La piccola lo guardò con una certa esitazione. «Andronica».
    «Bene, Andronica. Mi ricorderò di te» disse lui con un sorriso.
    Battendo più volte le lunghe ciglia ricurve, Andronica lo guardò con tanto d'occhi. Per un attimo ad Ares ricordò Melina, in una delle sue espressioni sinceramente smarrite di quando era ancora una bambina. «Sei tanto strano, lo sai?» osservò. Poi, a sorpresa, sorrise. «La tua preda ormai sarà scappata via».
    «Direi di sì». Ares si strinse nelle spalle. «Pazienza. Dovrò tornare qui a cercarla un'altra volta».
    La semidea gli rivolse un sorriso furbetto e lo sguardo birbante di una piccola volpe. «Torna a giocare quando vuoi. Io sono quasi sempre qui».
    Fu con un'ultima occhiata d'intesa, quindi, che si concluse quel loro incontro. Per la prima volta, contro tutte le aspettative del Pantheon olimpico e forse per uno scherzo del destino, Ares aveva rinunciato a uccidere qualcuno.

    Una volta uscito dal bosco, Ares cercò Atena. Non accadeva mai che fosse lui a mettersi alla sua ricerca: di solito era sempre lei che lo raggiungeva per parlargli o per impedirgli di fare qualcosa di brutto contro dei mortali. Stavolta però era lui ad avere l'urgenza di incontrarla.
    Sapeva che non poteva trattarsi di un caso. Se Atena non fosse andata da lui, Ares forse si sarebbe dimenticato di aver avuto un figlio semidio (o una figlia, come in quel caso) e non se ne sarebbe preoccupato per almeno un'altra decina di anni. Invece lei gliel'aveva fatto sapere subito. E lei lo sapeva, oh, sapeva fin troppo bene che Ares non desiderava femmine. Le uniche che aveva accettato erano state le figlie avute con altre dee e quindi di sangue altrettanto puro e potente. Sapeva che lui se ne sarebbe infischiato, o peggio: avrebbe potuto ucciderla.
    Impiegò più tempo del previsto per trovarla. Riuscì a intercettarla solo il mattino seguente, nel bel mezzo delle campagne ateniesi. La dea indossava un peplo piuttosto povero, cosa abbastanza sorprendente da parte di una divinità, anche se non impossibile. Tutt'intorno si distendevano campi coltivati, con qualche casa di contadini qua e là in lontananza.
    «Atena!» ruggì Ares, avanzando a grandi passi verso di lei. Era sceso direttamente dall'Olimpo su una nuvola - la nebbia di quel mattino gli permise di farlo senza dare nell'occhio.
    Lei si voltò subito verso di lui, ma invece di allarmarsi gli rivolse un sorriso serafico. «Che sorpresa, Ares. Cosa ti porta qui?» domandò in tono casuale.
    «Lo sai benissimo» ribattè secco lui quando l'ebbe raggiunta. «Tu lo sapevi. L'hai sempre saputo, fin dall'inizio!»
    «Cosa? Beh, la bambina la tenevo d'occhio già da qualche tempo» ammise lei vaga, sbirciandolo con i suoi occhi luminosi. «Quindi? Come ti è sembrata?»
    «E' per questo che non mi hai fermato» insisté lui. «Sapevi che non l'avrei uccisa».
    Lei ridacchiò, facendolo irritare ancora di più. La odiava quando si ostinava a fare la superiore con lui, sbirciandolo dall'alto di chissà quale segreto noto soltanto a lei. «Oh, Ares...» cominciò Atena. Avvicinò la mano al suo viso, come per fargli una carezza, ma lui la scansò. Senza alcun turbamento, lei continuò a parlare. «Io non avevo certezze, ma in tanti secoli ho imparato a conoscerti. Se ti avessi ostacolato, tu avresti desiderato la sua morte ancora di più. E' per questo che non l'ho fatto».
    Distolse lo sguardo da lui, puntandolo verso i campi. Fece un cenno verso di essi, invitandolo a guardare nella stessa direzione.
    «Ho deciso di scommettere su di te. Sapevo che avresti potuto ucciderla... ma c'era la speranza che tu la risparmiassi, se solo l'avessi incontrata una volta. La speranza di vederla vivere sotto una luce diversa da prima, ma di avere sempre lei davanti a te».
    Non c'era molto da vedere, in realtà. Più in giù, in mezzo alla piana incolta, c'era un gregge di pecore, in mezzo al quale spiccavano due ragazzini. Il più grande aveva i capelli castani; l'altro era più piccolo, dai capelli lunghi e color grano. Ares si sorprese a pensare che il più giovane doveva avere più o meno l'età di Andronica.
    «Quelli chi sono?» domandò nel tentativo di distrarsi.
    «Oh» Atena tornò a guardarlo «sono due fratelli figli di contadini. Zeus mi ha ordinato di dare un'occhiata al più giovane. Pare ne abbia passate tante. Perché ti interessa?»
    «Non m'interessa!» sbottò lui sbrigativo, pur sapendo di essersi appena contraddetto. «Il punto è che hai quasi fatto uccidere un'innocente, dicendomi di lei».
    Lei si portò una mano alle labbra, come per trattenere le risa. «Come dici? Starai scherzando! Io non ho fatto uccidere proprio nessuno. Non esiste dio che possa darti ordini all'infuori di Zeus, ricordi? Hai fatto tutto da solo».
    L'occhiata cupa di Ares avrebbe fatto rabbrividire il più coraggioso dei mortali, in quel momento.
    Ares lo sapeva, esattamente come lo sapevano tutti gli altri dei, che Atena riusciva a manipolare facilmente gli altri - il tutto in maniera ancora più subdola di qualsiasi altro olimpo. Era poteva convincere qualcuno con la dolcezza e il fascino, Afrodite con la seduzione... ma non Atena. Atena era furba e calcolatrice. Sfruttava le particolarità di una persona a proprio vantaggio per ottenere i propri scopi.
    «Non finisce qui, Atena. Un giorno ti strapperò quel sorrisetto dalla faccia».
    Per tutta risposta, la dea allargò le braccia, come a dire: "eccomi qui, ti aspetto".

    Passò qualche mese prima che Ares rivedesse la piccola Andronica. La volta successiva in cui la incontrò fu ai margini dello stesso bosco in cui l'aveva trovata la prima volta.
    Cresceva in fretta, la bambina. Stringeva tra le braccia un cesto e si muoveva con aria stranamente furtiva - proprio come una volpe che si allontana dal luogo in cui ha rubato il proprio bottino. Si voltò di scatto verso di lui mentre il dio, per nulla turbato dalla vista, si avvicinava facendo frusciare lievemente l'erba sotto i propri piedi.
    La semidea gli rivolse un sorriso. «Ciao!»
    Un benvenuto decisamente allegro, da rivolgere a un uomo come Ares. Il dio non ricambiò il sorriso né il saluto, limitandosi ad andarle più vicino.
    «Stai nascondendo un tesoro, volpe?»
    Andronica scosse la testa e gli mostrò il contenuto del cesto. Al suo interno c'era una piccola quaglia con l'ala spezzata che zampettava in circolo e tentava di arrampicarsi di tanto in tanto.
    «La mamma non ha sempre i soldi per comprare della carne... ma oggi ho trovato questa. Potremo mangiarla oppure sacrificarla sull'altare».
    Non si sorprese di quella risposta. Stando al poco che aveva sentito dalla stessa Andronica e da Atena, quella famiglia di solo due donne era in brutte condizioni; questo stato delle cose era di solito portato da sacrifici scarsi in nome delle divinità, che quindi portavano loro meno favori.
    «L'hai presa da sola?»
    Lei sbuffò, insofferente. «Insomma, quante domande fai!» sbottò, avviandosi di nuovo verso casa.
    Lui la seguì in silenzio, sorridendo tra sé. Non era difficile intuire che doveva averla presa da qualche trappola di un'altra persona - probabilmente un cacciatore.
    Dopo qualche metro lei si voltò di scatto. «Perché mi segui?»
    «Ti do noia?» domandò il dio di rimando, guardandola con condiscendenza.
    Lei gonfiò una guancia e abbassò lo sguardo sulla cesta, pensierosa. «Se vuoi puoi venire a casa mia a trovare ristoro» borbottò. «Così anche la mamma ti conoscerà».
    Ares rise leggermente all'idea di essere presentato di nuovo a Melina. Quanti anni doveva avere, adesso? Verso i trenta, forse. «Hai già parlato a tua madre di me?»
    Andronica annuì con decisione. «Le ho detto del nostro incontro nel bosco. Mi ha chiesto di portarti da lei non appena ti avessi rivisto». Dal tono però non sembrava molto entusiasta all'idea.
    «Verrò. Fammi strada».
    Non impiegarono molto tempo per raggiungere l'abitazione. Era una piccola casa affiancata da un orto, con un paio di oche che diedero un pessimo benvenuto ad Ares e uno molto più caloroso alla bambina. Andronica fece attenzione a tenere la cesta ben alta, poi vagò con lo sguardo attorno alla casa.
    «Madre? Madre, venite a vedere!» chiamò lei allegra.
    Non c'era nessuno a lavorare nell'orticello, quindi doveva essere all'interno. Dopo qualche attimo, infatti, la porta si aprì.
    Uscita definitivamente dall'adolescenza, Melina era diventata una bella donna, pur nella sua mortalità. I riccioli castani erano raccolti in un'acconciatura che li allontanava dal collo bianco e sottile, le forme erano diventate più abbondanti - probabilmente in seguito alla gravidanza - e le efelidi contornavano gli occhi grigio-verdi, gli stessi di sempre.
    La donna, come era prevedibile, si allarmò alla vista di Ares. Raggiunse in pochi passi la sua bambina e la strinse tra le braccia con fare protettivo, allontanandola dall'uomo e senza smettere di guardare quest'ultimo con occhi accusatori.
    «Mamma? Che c'è?» domandò Andronica curiosa. Era stata presa di spalle, perciò riuscì solo con difficoltà a guardare la madre. «Cos'avete?»
    Melina si riscosse in fretta. Sorrise alla figlia nel tentativo di sembrare tranquilla. «Niente, Andronica. Coraggio, entra in casa. Quello è il signore che hai conosciuto l'altra volta, non è così? Lascia che ci faccia conoscenza».
    Non permise alla piccola di replicare. La condusse fin dentro casa ignorando le sue lamentele e chiuse la porta. Ares rise di gusto davanti a quella scena.
    «Oh, ridi» sussurrò Melina tra i denti. «Ridi, ridi pure, grande e potente Ares. Non è certo la prima volta che ti prendi gioco di me, dopotutto».
    Il dio perse il sorriso mentre la donna tornava lentamente a guardarlo, lo sguardo truce, e si avvicinava pian piano.
    «Sono passati sette anni da quel giorno» esordì lei. Aveva un fare molto minaccioso - un'immagine che Ares trovò vagamente intrigante, ma che a suo parere non le si addiceva affatto. Lei poteva essere stata una volpe in passato, ma ormai era diventata un agnellino privo di carattere; non sarebbe mai potuta diventare una leonessa.
    «Mi sorprendi. Pensavo non lo ricordassi più» replicò Ares con fare strafottente.
    Lei scosse la testa, sempre seria. «Come hai potuto ben vedere, qualche divinità non mi ha concesso di dimenticare. Anzi, ha fatto in modo che mi restasse bene impresso nella mente per il resto della mia vita». Si fermò a un paio di metri di distanza, forse meno. «Che cosa vuoi da me, stavolta? Perché sei qui?»
    Lui si mise a braccia conserte, per nulla intimidito da quell'atteggiamento. «Che impudenza, per essere una donna mortale. Hai ritrovato quel briciolo di carattere che avevi perso?»
    Melina sembrò inibirsi molto; fece un lento passo indietro e abbassò lo sguardo, perdendo il coraggio di sostenere quello di Ares. «La m-mia domanda è sempre la stessa, Ares. Ti sei preso prima la mia estate, poi la mia reputazione e dopo ancora il mio futuro. Stavolta invece?»
    «Avrei preso il tuo futuro?» ripeté Ares, sempre con il suo tono prepotente. «Mi sono solo preso la tua verginità, mi pare». Allargò il proprio sorriso quando vide Melina avvampare al suono di quelle parole, come se fosse ancora stata una vergine che non aveva mai incontrato un uomo. «Anzi, ti ho concesso un dono divino che raramente si cede a una mortale patetica come te. Un dono che avevo intenzione di riprendermi».
    La donna impallidì davanti ai suoi occhi, assumendo un'espressione che minacciava di farlo scoppiare a ridere, tanto la trovava divertente. «Cosa... cosa vuoi fare ad Andronica?! Non ti permetterò di farle del male, quindi stai lontano da lei!» esclamò allarmata, squadrandolo con gli occhi di chi sta per attaccare. Un sentimento che, con la sua presenza, il dio non faceva che accrescere grazie al proprio potere.
    Doveva essersi molto affezionata a quella bambina, nonostante assomigliasse così tanto al dio che le aveva ipoteticamente rovinato la vita. Lo sguardo di Ares si accese di un velo di interesse; un velo che, tuttavia, non sarebbe bastato a fargli ritrovare interesse per Melina.
    «Quelle erano le mie intenzioni, sì, ma ho cambiato idea. Sono proprio curioso di vedere fino a dove riuscirà ad arrivare».
    L'espressione di Melina cambiò. Era di nuovo seria, come se la paura che l'aveva colta fosse scomparsa così come era arrivata. Lo guardò truce, come a minacciarlo.
    «Quella bambina è tutto quello che ho. E' vivace e piena di energie, ma è anche bella e dal cuore gentile. Mi è rimasta solo lei al mondo e voglio che abbia un futuro radioso. Se provi a farle del male, giuro su Zeus...!»
    Ma Ares non la ascoltava. Si era già mosso verso la casa, e Melina dovette affrettare il passo per pararglisi davanti e costringerlo a fermarsi.
    «No, fermo! Per gli dei, fermo, ti imploro!» lo pregò lei in tono improvvisamente supplice.
    «Cosa c'è? Ti sei ricordata che sono un dio?» la provocò Ares sarcastico. «Io faccio quello che voglio. Se voglio vedere mia figlia, lo farò. Se invece voglio ucciderla, sono libero di piantarle una spada nel petto».
    «No, no! Ti prego, ti prego! Prendi me al suo posto, fai quello che vuoi della mia vita, ma non fare del male ad Andronica!» esclamò Melina, sull'orlo delle lacrime.
    «Madre?»
    I due adulti si voltarono verso Andronica, che aveva appena fatto capolino da dietro la porta di casa. Guardava entrambi con una certa confusione.
    «Madre, cos'avete da urlare tanto?» domandò la semidea con sguardo confuso. Sorrise ad Ares, e ancora una volta il dio fu colpito dalla somiglianza che avevano. Condivideva molto di più con suo padre che con sua madre. Con che occhi Melina guardava sua figlia?
    Lo vide in quel momento. Melina guardò Andronica con apprensione, ma con un fare materno impossibile da fraintendere che si rifletté anche nei suoi gesti mentre la raggiungeva e le appoggiava le mani sulle spalle.
    «Tutto a posto, Andronica. Il tuo amico se ne stava andando». Melina sbirciò verso il dio. «E' stato un piacere conoscervi, signore».
    Il messaggio era chiaro: lo voleva lontano, e non voleva vederlo mai più - soprattutto, non avrebbe mai permesso che lui e Andronica passassero ulteriore tempo insieme. Per tutta risposta, Ares fece un sorriso aperto velato di una sottile malizia.
    «Al nostro prossimo incontro».

    Quello che accadde negli anni successivi non sarebbe stato niente di eccezionale per un'altra divinità dell'Olimpo, ma nel caso di Ares si trattava di un comportamento che trovava pochi precedenti simili nella sua vita immortale. Continuò a vedere la sua figlia semidea negli anni a seguire, molto più spesso di quanto non avesse fatto con un altro mortale prima di allora: regolarmente, almeno una volta per ciclo lunare.
    Melina, come c'era da aspettarsi da una severa e protettiva madre della Tracia, proibì alla figlia di vedere ancora l'uomo con i capelli rossi che aveva incontrato nel bosco. Questo divieto, tuttavia, concesse solo ad Andronica di adottare un paio di cattive abitudini: quella di mentire e quella di avere dei segreti con la sua stessa madre.
    Andronica era come aveva detto Melina - vivace e piena di energie, bella e dal cuore gentile - ma al tempo stesso era molto di più. Aveva un carattere testardo e molto orgoglioso ed era capace di impermalirsi all'istante se qualcuno accennava a sminuirla o a prenderla in giro. Aveva delle abitudini da maschiaccio che la portavano a giocare più con i maschi (quando possibile) che con le femmine, ma anche tra loro spiccava come una dei più forti e dei più veloci. Il suo miglior pregio era la sua velocità, sia nella corsa che nell'apprendimento; era simile a una spugna, mai sazia di quello che conosceva.
    Ares si divertiva a guardarla crescere. Si incontravano in segreto nel bosco e ogni volta le portava qualcosa di nuovo da vedere, oppure trovava un nuovo modo per farla arrabbiare senza motivo. La sminuiva spesso per il suo essere donna e quindi debole per nascita, per ricordarle quale fosse il suo posto, ma al loro incontro successivo le metteva in mano un pugnale e la invitava a sorprenderlo con le sue abilità di combattimento. Non si potevano definire amici, in realtà: non si confidavano l'uno con l'altra, non si aiutavano a vicenda; si limitavano a passare poco tempo insieme una volta ogni tanto.
    In una terra selvaggia e inospitale come quella non era raro che una donna imparasse a difendersi bene e a farsi valere, ma tutti quelli che conoscevano Andronica cominciarono presto a riconoscerla come qualcuno di diverso, di molto più speciale di quanto non desse a vedere. La giovane divenne presto una donna: una donna che nessuno poteva osare di prendere in moglie senza riuscire ad accettarla per quello che era o a batterla in abilità. Era certo comunque che Andronica non avrebbe mai accettato un uomo inferiore, né che la ritenesse inferiore. A diciannove anni era ancora libera e felice, e sua madre Melina era una delle madri più orgogliose dei dintorni.
    Le divinità si sorpresero molto per il nuovo comportamento di Ares, ma nessuno fece niente per fermarlo. Atena era contenta di quel cambiamento, perché diceva che quel genere di contatto con gli umani gli avrebbe insegnato più di quanto non avrebbe mai ammesso; Afrodite si sentiva semplicemente trascurata, ma non si mosse per impedirgli di vedere la ragazza. Dopotutto non era una donna immortale... ed era anche sua figlia. Non c'era motivo di ingelosirsi.

    Una sera, Ares decise di andare di nuovo a vedere Andronica. Era passato poco più di un mese dall'ultima volta che l'aveva vista; allora lei gli aveva parlato di qualcuno che l'aveva minacciata di metterla in riga ed era curioso di sapere come fosse andata a finire. Come dio della violenza, sperava che sua figlia avesse deciso di risolvere il problema passando alle mani, ma sapeva anche che quella semidea era troppo buona per prendere la decisione giusta senza tentare per vie meno brutali, anche se odiava doverlo riconoscere. A volte nel comportamento assomigliava fin troppo ad Atena, anche se non erano legati dal sangue.
    Fu mentre si recava da lei che incrociò Melina.
    Era invecchiata e di certo gli anni non erano stati molto clementi con lei; il suo volto era segnato dalle rughe e tra i suoi capelli si scorgevano lievi striature grigiastre. Non parve neanche sorpresa di vederlo - come se sapesse già tutto.
    «Sei venuta a cercarmi, piccola volpe?» la canzonò Ares. «Non sono qui per giocare con te».
    Lei scosse la testa. «Non chiamarmi in quel modo. Non sono più la bambina che conoscevi un tempo».
    Era seria e pacata. Un atteggiamento adulto che spinse il dio a chiedersi da quanto tempo non si vedevano. Ormai quanto era passato? Quindici anni?
    «Allora non comportarti come tale e fatti da parte» tagliò corto lui, facendo per oltrepassarla. Melina, però, gli appoggiò una mano sul braccio per fermarlo.
    «So che stai andando da Andronica, Ares» disse.
    «Vuoi impedirmelo?»
    La donna abbassò lo sguardo. Di colpo parve ancora più vecchia, con quell'espressione stanca - eppure non doveva avere più di una quarantina d'anni.
    «Ti chiedo solo di trattare Andronica con gentilezza. Ogni volta che esce ha una strana luce d'aspettativa negli occhi... è come se fosse innamorata. Non farla soffrire».
    «Non come ho fatto con te, vuoi dire?» domandò lui con cattiveria.
    Melina chiuse gli occhi per qualche secondo e incassò il colpo in silenzio, senza rispondere con la rabbia. Una reazione che Ares trovò frustrante.
    «Io ero giovane, Ares. Ho visto un uomo che trovavo affascinante e ho cominciato a immaginare come potesse essere la vita con uno come lui».
    «E ti sei innamorata di quello che tu desideravi, ma quando ti sei accorta che non era destino e che lui non ti amava né ti avrebbe mai amata, gli hai scaricato addosso la colpa per la tua infelicità» completò Ares aggressivo. «Sono contento che il Fato non abbia voluto che Andronica venisse su simile a una donna degenere come te».
    Lei scosse la testa. «Tu non mi hai forse presa con la forza? Non è forse vero che hai rovinato la mia felicità?» sbuffò, quasi ridendo. «Non che mi aspettassi di più, dal dio della guerra. Il Fato non vuole una vita gioiosa né persone amorevoli, per te. Ho abbandonato l'idea di poter diventare sposa di un dio molto tempo fa, insieme a tutte le mie stupide fantasie. Ecco: forse posso ringraziarti per avermi riportata con i piedi per terra».
    La sua voce e quei discorsi lo irritavano. Ares scosse la testa con energia e fece per allontanarsi. «Ora basta. Non sono qui per te e non ho intenzione di starti ad ascoltare».
    Sentì un fruscio poco lontano che, però, lo spinse a fermare il passo e a voltarsi in quella direzione. Non vide nulla, ma quell'esitazione spinse Melina a parlare ancora.
    «Vai pure, di certo non sarò io a costringerti. Ma ricordalo bene, Ares: nessun mortale che ha a che fare con te sarà mai felice. Prima o poi troverà l'infelicità per colpa tua. Andronica non fa eccezione».
    Ares la guardò rabbioso. «Lei è mia figlia. Ha sangue divino nelle vene».
    Melina gli lanciò un'ultima occhiata triste. «Lei è mortale, Ares. Presto o tardi dovrai guardare in faccia la realtà, e allora potrebbe essere troppo tardi».

    «Oh, ciao» mormorò Andronica distrattamente. Era seduta in cima a un grosso albero ai limitari della foresta e guardava verso il cielo ormai nero e tempestato di stelle. Fece un cenno distratto ad Ares per invitarlo a sedersi lì accanto.
    «Che stai facendo?» domandò il dio con una sorta di impazienza. Come sempre non gli piaceva restare fermo e seduto e quella staticità da parte di Andronica lo infastidiva.
    La ragazza sorrise leggermente. Ormai sembrava davvero un Ares al femminile: capelli rossi, sguardo intenso, corporatura tonica e scattante. Quei pochi tratti che condivideva con Melina erano praticamente spariti. «Pensavo. Sai, oggi ho battuto Diocle a una corsa. Mi ha sfidato ad attraversare i campi: se avessi perso avrebbe potuto prendermi in sposa».
    Quel nome suonò vagamente familiare all'orecchio di Ares, ma il dio non lo disse. «E quindi?»
    Andronica fece spallucce. «Niente. E' stato molto facile».
    Per un po' nessuno dei due parlò né fece niente. Quella notte primaverile era fredda e la pelle della giovane era lievemente accapponata, ma Ares non ci fece molto caso. Si sentiva il frinire delle cicale e qualche fruscio poco distante, probabilmente di animali notturni.
    «Ogni tanto mi chiedo quando raggiungerò i miei limiti» confessò lei alla fine. «Se mai lo troverò, un uomo capace di tenermi testa e di battermi».
    «Ci sono io» replicò subito Ares.
    Lei lo guardò divertita. «Tu? Ma tu non mi puoi sposare! Ormai sei vecchio, no? Anche se sembri molto più giovane, avrai almeno l'età di mia madre. Saresti stato perfetto se fossi stato mio padre. Ma tu non hai neanche una famiglia, quindi non so se puoi capire».
    Chissà come avrebbe reagito se Ares, in quel momento, le avesse confessato la verità sulle sue origini. Per la mente del dio passò quel pensiero e immaginò la scena: come la ragazza avrebbe potuto reagire, in che modo la cosa avrebbe potuto influenzarla.
    Restò in silenzio.
    «Ogni tanto... penso che mi piacerebbe essere fermata» disse Andronica. «Trovare qualcuno che possa convincermi a non sfidarlo a una corsa, o che possa battermi al mio stesso gioco. Qualcuno così speciale da farmi comportare diversamente». Lo guardò. «A te è mai successo di incontrare una persona così?»
    Ares distolse lo sguardo. Per un attimo pensò al ragazzo che aveva incontrato per ben due volte di recente, quell'Aristeo dai capelli biondi. Una persona tanto semplice e dal fare infantile quanto misteriosa, che sembrava sapere più di quanto non desse a vedere e che pareva in grado di farlo comportare come preferiva. Si scacciò quel pensiero dalla testa, però: l'idea era ridicola. Non sarebbe mai potuto accadere, non con un uomo.
    «Conosco l'amore e lo riconosco quando lo vedo, ma non mi ha mai sfiorato, né l'ho mai desiderato».
    Andronica gli sorrise. «Peccato. L'amore riesce a trasformare i cuori delle persone in modo incomprensibile».
    Restarono in silenzio per un altro lungo istante, durante il quale entrambi tornarono a fissare il cielo.
    «Ultimamente sento una grande energia in petto» disse ancora Andronica. «Sento che il Fato ha in serbo per me qualcosa di importante. Qualcosa di grandioso destinato solo a me. Secondo te è un'idea stupida?»
    Fu allora che Ares la guardò con più attenzione di quanto avesse mai fatto prima. Osservò il suo corpo adulto, bello e agile, i capelli rossi e lisci che le invadevano le spalle in una cascata selvaggia. Sorrise, scoprendosi fiero di quella semidea venuta al mondo per mezzo di un gesto sconsiderato. Prima o poi, se si fosse davvero dimostrata una figlia degna, avrebbe anche potuto farla ascendere all'Olimpo - una cosa che non aveva mai concesso a nessuno dei suoi figli semidivini.
    «Tu diventerai la più sfolgorante delle stelle, Andronica. Di questo sono sicuro».
    Non disse mai per intero quello che aveva pensato in quel momento. La ragazza lo guardò stranamente ammirata.
    «Lo sai? Se avessi un padre, vorrei che fosse esattamente come te».
    Neanche lei disse mai per intero quello che, probabilmente, aveva pensato in quell'istante. Padre e figlia si assomigliavano fin troppo: ben presto si sarebbero entrambi pentiti di non aver espresso i loro sentimenti l'uno all'altra in quei momenti tranquilli.

    Accadde al tramonto, in Tracia, neanche due giorni dopo. Ares stava banchettando nel suo palazzo, quando Deimos irruppe nel salone rapido e con una strana furia negli occhi.
    «Padre, venite con me».
    Ares lo guardò infastidito. «Sto mangiando» gli fece notare. «Qualunque cosa sia, può aspettare».
    «Diocle, quel semidio figlio di Zeus che Atena ti costrinse a lasciare in vita anni fa, ti sta sfidando!» insisté Deimos.
    Fu allora che Ares, finalmente, ricordò dove aveva già sentito quel nome. Quello era il fanciullo che era riuscito a sfuggire alla sua spada grazie ad Atena e al suo scudo invisibile - quello che non era morto allora, ma che Ares si era ripromesso di uccidere per completare l'opera.
    Atena gli aveva detto che si sarebbe pentito di aver compiuto quella strage, ma non era successo niente. Anzi, aveva perso da molto tempo le tracce di quel ragazzino. Ormai doveva essere diventato un adulto in tutto e per tutto. Un adulto che aveva deciso di andare personalmente incontro alla morte più cruenta possibile: per mano del dio della guerra.
    Fu questo a convincerlo. Si alzò in piedi con un sorriso. «Bene: finalmente potrò bagnare la mia spada col suo sangue. Dove si trova?»
    «Vicino al bosco a più di dieci stadi da qui... davanti alla casa di Andronica».
    Nessuno avrebbe potuto descrivere lo stato d'animo di Ares: era qualcosa che provava raramente, specie con tale intensità. Le parole di Atena gli risuonarono nella testa come un'eco: "ti pentirai di aver compiuto questa strage...". Ma non aveva importanza.
    L'importante, al momento, era solo raggiungere il luogo dell'incontro più velocemente possibile. Non importava con che mezzo, se a cavallo della nebbia o per mezzo del carro.
    Aveva un orribile presentimento, del tipo che detestava di più.

    Si recò al luogo della sfida completamente solo, chiedendosi in che modo avrebbe potuto ucciderlo nel caso avesse trovato ciò che cominciava a temere.
    I suoi occhi intravidero lo scenario prima del previsto, in quella notte di cielo nero.
    La casa di Melina e Andronica era in fiamme. Doveva stare bruciando ormai da parecchio tempo, perché le lingue di fuoco avvolgevano completamente l'edificio nella loro stretta rovente. La luce aranciata dell'incendio catturò lo sguardo di Ares e lo abbagliò, facendogli perdere di vista gli altri elementi del paesaggio. Per qualche secondo regnò solo quel colore intenso e bruciante, nella sua testa.
    Più si avvicinava, più riusciva a intravedere dettagli. Davanti alla casa c'era una figura in piedi... no. Erano due persone, una vicina all'altra.
    Fermò il carro a pochi metri di distanza, quando sentì il calore invadergli la pelle. Scese con uno slancio agile e si avvicinò di più con una breve corsa.
    L'uomo davanti alla casa era di bell'aspetto, dai capelli biondi e ondulati; assomigliava molto a suo padre e condivideva perfino qualcuno dei tratti che Ares stesso aveva ereditato dal genitore. Indossava un chitone dall'aria malconcia e al fianco aveva una spada.
    Diocle era cresciuto bene, ma aveva lo sguardo spiritato; sembrava ancora più pazzo alla luce del fuoco.
    Trattenuta con un braccio, completamente in suo potere, c'era Andronica. Il suo sguardo era desolato e spento, la sua veste screziata di macchie enormi di sangue. Un braccio era piegato in uno strano angolo - sicuramente l'osso era rotto - e le gambe erano più divaricate di quanto Ares non fosse abituato a vederla fare.
    Ai loro piedi, con il petto e il ventre orribilmente squarciati, c'era il cadavere di Melina. Il suo volto era irriconoscibile per via del sangue rappreso che le deformava i tratti del viso, ma Ares intuì che i suoi occhi erano ancora aperti.
    Una vista da mozzare il fiato. Ma Ares, quella volta, non sentì affatto di apprezzare quello che stava guardando.
    «Come lo hai scoperto?» domandò, la voce fremente per chissà quale turbinio di emozioni contrastanti. Sentiva l'energia della furia pazza di Diocle invaderlo come un piccolo sole, come se al suo posto ci fosse stato un altro incendio a invadere la pelle del dio di calore ed energia. E Ares, che come dio esisteva solo grazie alle azioni e ai pensieri dei mortali, non poteva fare a meno di continuare ad accettare dentro di sé quei raggi collerici.
    «Andronica e io ci conosciamo già da tempo. Non immaginavo fosse la figlia del dio che ha ucciso tutta la mia famiglia... almeno fino all'altra sera, quando ti ho visto parlare con sua madre e ho sentito i vostri discorsi. Per essere un dio che esiste dall'alba dei tempi sei davvero un ingenuo» commentò Diocle con cattiveria. Sorrideva. «Prima ho pensato di ingannare l'attesa violentando tua figlia, ma hai impiegato un sacco di tempo per arrivare... la bella Andronica ha perso la voce dal tanto gridare e non era più divertente».
    La semidea continuava a restare inerte tra le sue braccia, ma il suo sguardo sembrò riaccendersi di una nuova vita. Guardò Ares con espressione sconvolta.
    Lo sguardo del dio si infuocò di colpo. Tirò fuori la spada con la naturalezza con cui si fa un passo in avanti. «Tu...!»
    Ma Diocle fu più veloce, Andronica era già tra le sue braccia. Tirò fuori la spada e la passò con decisione sul collo bianco della donna, poi la lasciò cadere a terra.
    L'ultima figlia semidea di Ares scivolò a terra come un pezzo di stoffa, priva di energie e con il sangue che sgorgava dalla sua gola e affondava direttamente nel terreno, imbevendolo come una spugna.
    «Ecco a te, finalmente! Volevi il sangue? Ebbene, ora l'hai avuto!» urlò Diocle, fuori di sé, mentre si allontanava di un paio di passi dalla morente. «Ti sei preso la mia famiglia... e ora io mi sono preso la tua! Per quanto tempo ho aspettato...»
    Ma Ares non ci vedeva più, non lo sentiva più. Aveva visto il rosso scendere dalla gola di Andronica e invaderle il petto, scivolare accanto al suo collo... e poi più niente.
    Diocle aveva ucciso la figlia del dio più pericoloso dell'Olimpo, ma non sarebbe rimasto impunito.

    Non fece in tempo a guardare sua figlia nell'ultimo istante della sua vita. La sua rabbia lo spinse a fare Diocle a pezzettini; quando ebbe ritrovato un briciolo di calma, Andronica era già morta.
    «Ti pentirai di aver compiuto questa strage, Ares. Questa più di qualunque altra.»
    «Non sai fare altro che del male. Le persone con te conoscono solo il dolore.»
    «Mi ero convinta di aver visto della gentilezza, in te. E' stato il più grande errore della mia vita.»
    «Lei è mortale, Ares. Presto o tardi dovrai guardare in faccia la realtà, e allora potrebbe essere troppo tardi.»

    Ares lo sapeva. Il Fato non prevedeva che qualcuno trovasse gioia quando aveva a che fare con il dio della guerra. Lo sapeva.
    Eppure quel giorno non fece come al solito - non tornò a casa subito dopo aver ucciso il proprio avversario. Si soffermò a lungo, molto a lungo, a guardare i volti di quei due cadaveri orribilmente scempiati, prima di farli bruciare nell'incendio residuo di quella che era stata la loro casa, il loro universo solo per loro.
    Si allontanò silenziosamente, come per non disturbare il loro sonno eterno.
  13. .
    Ciao a tutti!
    Quest'oggi porto alla vostra attenzione un giochino che ho scoperto oggi: il Fanfic Maker.

    Voi mi chiederete: "Seebaru, che cos'è un Fanfic Maker"?
    Niente di più semplice: un Fanfic Maker è un generatore automatico di fanfiction che funziona online. Si possono inserire fino a sei diversi personaggi (il protagonista, l'antagonista, due comprimari maschi e due comprimarie femmine), si sceglie il fandom, si sceglie la quantità di violenza, di sesso e di cliché che si vuole nel testo... e anche la quantità di ego che si vuole per l'ipotetico autore di questa fanfiction. xP

    Il sito è ahimè in inglese, ma se conoscete bene la lingua è davvero uno spasso provare a inserire i propri personaggi e vedere cosa ne esce. Fatemi sapere cosa ne pensate!
  14. .
    Grazie mille per i vostri giudizi! Per il prossimo contest a cui parteciperò m'impegnerò di più. u___u
  15. .
    Dato che se ne parla qui, scrivo qui. °3°
    Ho seguito un po' la questione dei pv originali e diciamo che l'ho capita, ma mi è rimasto un dubbio e se possibile vorrei che mi rispondeste.
    E' stata introdotta questa regola per correttezza nei confronti degli artisti che pubblicano le loro opere online, e fin qui tutto bene, ma si è anche parlato di una modifica che dovrebbe andare a vantaggio dell'intero forum. La domanda è: sarà mai possibile che un intero forum gdr arrivi addirittura ad essere chiuso per colpa di una questione del genere?
    Io passo il tempo su questi circuiti (fc, ff e bf) da anni, ma non mi è davvero mai capitato di vedere un gdr chiuso per delle immagini prese online. Ho visto forum che hanno chiuso perché distribuivano materiale pirata (quindi film, serie tv, anime e manga scaricabili o visibili online anche se in Italia ne sono stati comprati i diritti), al massimo, e questo non mi pare proprio che sia il caso del Secret Whispers. Conosco anche un altro caso di un'utente che, in un altro forum, aveva recensito negativamente il libro di un'autrice italiana: quest'ultima è andata a parlarne direttamente agli amministratori del circuito e loro hanno bannato l'utente. Appunto, l'utente: il forum non è stato sfiorato. Tra l'altro questi esempi che ho fatto sono proprio dei casi estremi.
    Insomma, queste conseguenze "catastrofiche", tanto per cominciare, io non le vedo; spiegare il motivo della modifica al regolamento va bene, ma mi aspetto una spiegazione credibile.
    Per arrivare al punto: ammettiamo anche che il forum rischi la chiusura totale e definitiva, con la perdita di tutti i topic (quindi role, personaggi, angoli utenti, iniziative e il resto). Se questo rischio è sempre stato presente, perché questa regola non è stata introdotta sin dall'inizio? Perché solo adesso, di punto in bianco, e non già alla creazione del forum?
    Se poi allo staff non era venuto in mente di introdurre la regola dal principio (ed è comprensibile, anche perché siamo tutti esseri umani qui, fino a prova contraria), perché non è stato fatto almeno quando è arrivata quell'artista giapponese di cui si è parlato prima? In quella situazione, se davvero c'era un rischio così grosso, penso che a chiunque sarebbe suonato un campanello d'allarme.
    In breve, voglio sapere come mai questa modifica è stata fatta solo adesso, ma soprattutto vorrei sapere se il forum rischia davvero così tanto. Senza offesa, ma messa in questo modo mi sembra proprio un'esagerazione.

    Quando ho sentito di questa nuova regola, all'inizio ero davvero indignata, anche perché io stessa uso dei pv originali per delle role. Sono giocate e personaggi a cui tengo molto e se dovessero venire eliminati non la prenderei affatto bene. Nonostante questo sono riuscita a "sbollire" e in qualche modo me ne farò una ragione.
93 replies since 3/7/2006
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